Trama
Quattro fratelli. Due case a picco sul Mare del Nord. Un dramma familiare sepolto nel silenzio da decenni.
Tutto comincia con un testamento. Al momento di spartire l’eredità fra i quattro figli, una coppia di anziani decide di lasciare le due case al mare alle due figlie minori, mentre Bård e Bergljot, il fratello e la sorella maggiori, vengono tagliati fuori. Se Bård vive questo gesto come un’ultima ingiustizia, Bergljot aveva già messo una croce sull’idea di una possibile eredità, avendo troncato i rapporti con la famiglia ventitré anni prima. Cosa spinge una donna a una scelta così crudele? Bård e Bergljot non hanno avuto la stessa infanzia delle loro sorelle. Bård e Bergljot condividono il più doloroso dei segreti. Il confronto attorno alla divisione dell’eredità sarà l’occasione per rompere il silenzio, per raccontare la storia che i familiari per anni hanno rifiutato di sentire. Per dividere con loro l’eredità – o il fardello – che hanno ricevuto dalla famiglia. Per dire l’indicibile.
Premiato dai librai norvegesi come miglior libro dell’anno, in vetta alle classifiche di vendita per mesi, osannato dalla critica internazionale, Eredità è il romanzo con cui la norvegese Vigdis Hjorth ha raggiunto la fama mondiale. Lirica riflessione sul trauma e sulla memoria, è al tempo stesso il furioso racconto della lotta di una donna per la sopravvivenza.
«La più grande storia letteraria scandinava degli ultimi vent’anni».
«The New Yorker»
«Hjorth svela i segreti poco a poco con una precisione degna di Ibsen: la suspense si mantiene alta fino all’ultima pagina».
«Aftenposten»
«Un romanzo che può essere apprezzato come alta letteratura così come bieco strumento di vendetta. I tabloid lo hanno amato quanto le testate più autorevoli, ed è diventato il bestseller dell’anno».
«The Guardian»
«In questo romanzo spietato e costruito con molta pazienza, Hjorth fa qualcosa che pochi scrittori sono in grado di fare: Eredità è al tempo stesso conciso e travolgente».
«Financial Times»
«Eredità è un romanzo che si legge in maniera compulsiva e che trasforma gli interrogativi sulla vergogna in armi contro il silenzio».
«The Paris Review»
«Una narratrice straordinaria».
«Los Angeles Review of Books»
Estratto
Compiere quello che devi
come se fosse un’azione voluta.
SLAVOY ŽIŽEK
Mio padre è mancato cinque mesi fa, in un momento che potrebbe definirsi più o meno opportuno a seconda dei punti di vista. Personalmente ritengo che non avrebbe avuto nulla in contrario a morire proprio in quell’istante e in maniera tanto improvvisa, avevo pensato addirittura che si fosse procurato da solo la caduta, quando sono venuta a saperlo, prima di conoscere i dettagli. Assomigliava troppo a quello che si legge nei romanzi per poter essere qualcosa di casuale.
Le settimane antecedenti al suo decesso mio fratello e le mie sorelle avevano discusso ferocemente sull’anticipo dell’eredità, che riguardava la ripartizione delle case al mare che la nostra famiglia possedeva a Hvaler. Solo due giorni prima che nostro padre cadesse, mi ero schierata dalla parte di mio fratello maggiore contro le mie due sorelle più giovani.
Ero venuta a conoscenza di quel litigio in modo strano. Mi aveva telefonato mia sorella Astrid un sabato mattina che pregustavo da tempo, perché non dovevo far altro che preparare un intervento che avrei tenuto a Fredrikstad, quella sera stessa, a un seminario sul teatro contemporaneo. Era una bella mattinata di fine novembre, tersa, fuori c’era il sole, sarebbe sembrata quasi primavera se non avessi saputo che non era così, se non fosse stato per gli alberi spogli che tendevano i loro rami divaricati verso il cielo, per il terreno rosso di foglie. Ero contenta, mi ero preparata il caffè, ero felice all’idea di recarmi a Fredrikstad, vagabondare per la città vecchia dopo l’evento, passeggiare sulle fortificazioni e guardare il fiume in compagnia del cane che avrei portato con me. Ero entrata nella doccia e, quando ne ero uscita, avevo visto che
Astrid mi aveva telefonato più volte. Doveva trattarsi della raccolta di articoli che la stavo aiutando a redigere.
Aveva risposto sussurrando. Aspetta un attimo, mi aveva detto, in sottofondo si sentivano dei fruscii, come se si trovasse in una stanza dove c’erano delle apparecchiature elettriche. Aspetta un attimo, aveva ripetuto, sempre mormorando. Ero rimasta in attesa. Sono in ospedale, al Diakonhjemmet, mi aveva spiegato, la sua voce si sentiva meglio, il ronzio era sparito. Si tratta della mamma, aveva continuato. Ma è andato tutto bene. È fuori pericolo.
Un’overdose, aveva ripreso, stanotte la mamma ha ingerito un’overdose di pillole, ma è andata bene, è soltanto molto stanca.
Era già capitato, ma in quell’occasione erano accaduti, in precedenza, così tanti avvenimenti strazianti che la cosa non mi aveva sorpreso. Astrid aveva ripetuto che era andata bene, che la mamma era fuori pericolo, ma che era stato drammatico. La mamma l’aveva chiamata alle quattro e mezza del mattino dicendole di aver preso un’overdose di pillole: Ho preso un’overdose di pillole. Quella sera Astrid e suo marito erano stati a una festa, erano appena tornati a casa e non erano in condizioni di guidare. Astrid aveva telefonato a papà che, quando aveva trovato la
mamma distesa sul pavimento della cucina, aveva contattato il vicino, medico. L’uomo era accorso subito e, indeciso se fosse il caso di chiamare un’ambulanza, lo aveva poi fatto per sicurezza. Arrivata l’ambulanza, la mamma era stata portata al Diakonhjemmet dove si trovava adesso, fuori pericolo, ma molto, molto provata.
Perché, le avevo chiesto. Astrid mi aveva risposto in maniera vaga e sconnessa, ma dopo un po’ avevo capito che le due case tanto ricche di tradizione e ricordi che la famiglia possedeva a Hvaler erano passate di proprietà alle mie due sorelle, Astrid e Åsa, senza che nostro fratello Bård ne venisse informato; quando lo aveva scoperto, Bård aveva dichiarato che si trattava di un prezzo troppo basso. La sua reazione era stata durissima e aveva scatenato un putiferio, mi aveva riferito Astrid. Lo aveva contattato di recente perché a breve nostra madre avrebbe compiuto ottant’anni, nostro padre ottantacinque, e bisognava celebrare, così gli aveva scritto chiedendogli se lui e la sua famiglia avrebbero partecipato ai festeggiamenti. Bård le aveva risposto che non voleva vederla, che si era accaparrata chissà come la casa di Hvaler, che questo rientrava in una serie di discriminazioni di carattere economico che venivano perpetrate da anni e che lei era brava a pretendere imparzialità ed equità soltanto quando la riguardavano in prima persona.
Astrid era rimasta sbigottita dai toni e dal contenuto del messaggio, lo aveva mostrato a nostra madre che, sconvolta, aveva preso un’overdose di pillole e adesso era ricoverata al Diakonhjemmet, e in un certo senso tutto questo era colpa di Bård.
Quando Astrid gli aveva telefonato raccontandogli dell’overdose, Bård le aveva risposto che era lei la responsabile in prima persona di quella situazione. È stato così gelido, aveva puntualizzato Astrid. Si serve dell’arma peggiore in suo possesso: i figli. I figli di Bård avevano tolto l’amicizia su Facebook ad Astrid e Åsa e avevano scritto ai nostri genitori dichiarando che erano amareggiati per la perdita della casa al mare. Nostra madre era terrorizzata all’idea di non avere più contatti con loro.
Le avevo detto di fare gli auguri di pronta guarigione a nostra madre, cos’altro dovevo fare. Ne sarà felice, mi aveva risposto.
È strano pensare a quanto sia casuale conoscere persone che saranno decisive per l’evolversi della nostra vita, persone che ci influenzeranno o ci indurranno a compiere scelte tali da trasformare la direzione della nostra esistenza. O forse la casualità non c’entra? Forse percepiamo in quel momento che l’individuo che ci sta di fronte sarà in grado di spingerci a intraprendere una strada che, consapevolmente o inconsapevolmente, desideravamo percorrere? In tal caso l’incontro con questa persona continua. O invece avvertiamo che il suddetto individuo rappresenterà una sfida o ci allontanerà dal cammino che vogliamo seguire, e per questo motivo non desideriamo rivederlo? È strano pensare all’importanza che una singola persona potrebbe avere sul nostro modo di agire in situazioni decisive soltanto perché ci siamo consultati proprio con lei.
Non avevo bevuto il caffè, ero inquieta e, dopo essermi vestita, ero uscita per sentire il vento soffiarmi sul viso, per schiarirmi la mente. Non ho reagito in maniera adeguata, avevo pensato. Avevo telefonato a Søren, che tra i miei figli era quello che conosceva meglio la famiglia. Ovviamente era rimasto sorpreso alla notizia dell’overdose, ma aveva già sentito parlare di altri episodi analoghi: era sempre andata bene perché ogni volta mia madre chiamava in tempo. Quando avevo affrontato la questione relativa al passaggio di proprietà delle case al mare e a quanto erano state vendute rispetto al loro valore reale, Søren si era fatto pensoso e aveva dichiarato che capiva la reazione di Bård. Lui non aveva tagliato i ponti, come me, era sempre stato presente con i nostri genitori, non in modo così assiduo e costante come Astrid e Åsa, ma non per questo meritava di subire ritorsioni a livello economico.
Avevo telefonato a Klara, che si era infuriata. Giocherellare con il suicidio non era una bella cosa. E non era neppure ammissibile lasciare le case di famiglia a due dei quattro figli, in segreto, e a un prezzo al di sotto del valore di mercato.