Per celebrare il ventesimo anniversario dalla scomparsa del grande autore brasiliano, Garzanti pubblica una nuova edizione di uno dei suoi più grandi capolavori.
Dona Flor e i suoi due mariti è uno dei capolavori di Jorge Amado: la ricchezza verbale, la perfetta architettura narrativa, lo humour e il contagioso amore per la vita sono quelli dei grandi classici della narrativa sudamericana. Nella moltitudine dei personaggi, nel delicato mormorare delle comari, nelle inquietudini di Flor, inseguita dal desiderio, la miseria e la grandezza degli abitanti di Bahia hanno la loro celebrazione.
Il romanzo ruota attorno alla vedovanza di dona Flor e al suo lutto stretto, vissuto nel ricordo di Vadinho. Coglie l’intimità della giovane vedova, il suo riserbo, le sue notti insonni e la sua insoddisfazione. Racconta di come arrivò onorata al suo secondo matrimonio, quando il fardello del defunto cominciava a pesare sulle sue spalle, e di come visse in pace e armonia, senza dispiaceri né soprassalti, col suo bravo secondo marito, nel mondo della farmacologia e della musica. E mentre lei brilla nei salotti e il coro dei vicini le ricorda la sua felicità, Vadinho, nel suo corpo astrale, la visita, la corteggia, le elargisce gioie eccezionali e consigli formidabili.
A Zélia, nel suo tranquillo pomeriggio fra giardino e gatti, nella tenerezza calda di questo aprile; a João e Paloma, nel mattino delle loro prime letture e dei loro primi sogni.
All’amica Norma dos Guimarães Sampaio, casualmente personaggio di questa storia, la cui presenza onora e illustra queste povere pagine. A Beatriz Costa, di cui Vadinho fu un ammiratore sincero. A Eneida che ebbe il privilegio d’ascoltare l’Inno Nazionale, eseguito al fagotto dal dottor Teodoro Madureira. A Giovanna Bonino che possiede un quadro a olio del pittore José de Dome, ritratto di Dona Flor adolescente, in toni di ocra e giallo: quattro amiche qui riunite nell’affetto dell’autore.
A Diaulas Riedel e Luiz Monteiro.
«Dio è grasso.»
(rivelazione di Vadinho al suo ritorno)
«La terra è azzurra.»
(conferma di Gagarin dopo il primo volo spaziale)
«Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto.»
(adagio appeso alla parete della farmacia del dottor Teodoro Madureira)
«Ahi!»
(sospiro di dona Flor)
Caro amico Jorge Amado,
la torta di puba1 che faccio non segue una ricetta vera e propria. Ho avuto spiegazioni da dona Alda, moglie di Renato, quello del Museo, e ho imparato a forza di farla e di rompermici la testa fino a metterla a punto. (Non è forse amando che ho imparato ad amare, non è stato vivendo che ho imparato a vivere?) Venti polpettine, o più, di pasta di puba, a seconda della grandezza desiderata. Consiglierei dona Zélia di farne subito una grande, perché la torta di puba piace a tutti, e tutti si servono due volte. Perfino loro due, così diversi in tutto il resto, solo in questo vanno d’accordo: pazzi tutti e due per la torta di puba o carimã. Anche per qualche altra cosa? Mi lasci in pace, caro il mio Jorge, non mi stuzzichi e non parli di queste cose.
Zucchero, sale, formaggio grattugiato, burro, latte di cocco, di quello più liquido e di quello più denso – ci vogliono tutti e due. (Mi dica un po’, lei che scrive sui giornali, perché si deve sempre aver bisogno di due amori, perché uno non basta a riempire il cuore?) Le quantità variano secondo il gusto, ognuno ha un palato diverso: c’è chi preferisce un sapore più dolce e chi più salato, non è vero? La pasta dev’essere morbida. Forno ben caldo.
Sperando d’aver soddisfatto la sua richiesta, ecco qui la ricetta – che non è neppure una ricetta, ma un semplice appunto. Assaggi la torta che le mando insieme alla ricetta. Se le piace me lo faccia sapere. Come stanno i suoi? Qui in casa tutti bene. Abbiamo rilevato un’altra quota della farmacia e abbiamo preso una casa per l’estate a Itaparica, è molto chic. Quanto al resto, che lei ben conosce, sempre al solito, per quel che nasce storto non c’è rimedio. L’alba delle mie giornate non gliela racconto: sarebbe mancanza di rispetto. Ma chi accende la luce dell’aurora sullo specchio del mare è, di fatto e di diritto, la sua affezionatissima
Floripedes Paiva Madureira, dona Flor dos Guimarães
(Biglietto recente di dona Flor all’autore)
Parte prima
Della morte di Vadinho, primo marito di dona Flor, della veglia funebre e della sepoltura del suo corpo.
(al chitarrino il sublime Carlinhos Mascarenhas)
Scuola di Arte Culinaria Sapore e Arte
Quando e cosa si serve per una veglia funebre
(risposta di dona Flor a una alunna)
Non perché avviene in un giorno disordinato di lamentazioni e tristezza, non per questo si deve permettere che la veglia funebre vada alla bell’e meglio. Se la padrona di casa, fuori di sé fra singhiozzi e svenimenti, immersa nel suo dolore, o adagiata morta nella bara, non potrà farlo, un parente o una persona amica si assumerà l’incarico di occuparsi della veglia, poiché non si possono abbandonare, senza niente da bere né da mangiare, i poveretti, solidali per tutta la notte, a volte in inverno e col freddo.
Affinché una veglia funebre sia animata e onori effettivamente il defunto che la presiede, rendendogli meno grave la prima confusa notte della sua morte, è necessario dedicarvi cure sollecite, occupandosi del morale e dell’appetito.
Quando, e cosa si serve?
Ebbene, si serve per tutta la notte, dal principio alla fine. Il caffè è indispensabile, e va servito in continuazione, naturalmente in tazze piccole. Il caffè e latte, con pane, burro, formaggio, qualche biscottino, qualche polpettina di aipim1 o carimã,2 fette di cuscus con uova fritte, quello solo al mattino e solo per chi ha passato lì la notte, fino all’alba.
La cosa migliore è tenere sempre sul fuoco un bollitore perché non manchi mai il caffè, visto che arrivano continuamente nuovi visitatori. Il caffè in tazzina è accompagnato da biscotti o crackers; qualche volta si può servire un vassoio di roba salata, panini con formaggio, prosciutto, mortadella, cose semplici, visto che complicazioni ce ne sono già abbastanza col defunto.
Se però la veglia dovesse essere una veglia di lusso, di quelle dove il denaro scorre a fiumi, allora è di prammatica una tazza di cioccolata a mezzanotte, densa e bollente, oppure un brodo grasso di gallina. E per completare, polpettine di baccalà, fritto misto, crocchette, dolci assortiti, frutta secca.
Da bere, trattandosi di una casa ricca, oltre al caffè ci può essere della birra o del vino: solo un bicchiere per accompagnare il brodo e il fritto. Champagne mai, non è considerato di buon gusto.
Sia in una veglia ricca, sia in una veglia povera, si esige però la presenza, costante e necessaria, di una buona cachaçinha;3 tutto può mancare, perfino il caffè, lei sola è indispensabile; senza il suo conforto non c’è veglia funebre che si rispetti. Una veglia funebre senza cachaça significa mancanza di considerazione per lo scomparso, indica indifferenza e disamore.
1
Vadinho, il primo marito di dona Flor, morì a Carnevale, una domenica mattina, mentre ballava un samba vestito da baiana in Largo 2 Luglio, non lontano da casa sua. Non apparteneva al gruppo, ci si era semplicemente aggregato, con altri quattro amici tutti vestiti da baiana, e tutti provenienti da un bar della zona del Cabeça, dove il whisky scorreva a fiumi, offerto da un certo Moysés Alves, piantatore di caffè, ricco e spendaccione.
Del gruppo faceva parte una piccola ma affiatata orchestra di violini e flauti: al chitarrino Carlinhos Mascarenhas, un tipo magrolino, celebre in tutti i bordelli della città, ah! un chitarrino divino. I giovanotti erano vestiti da zingari, le ragazze da contadine ungheresi o romene; tuttavia mai nessuna ungherese o romena, ma nemmeno bulgara o slovacca, seppe sculettare con tanto brio come quelle baiane purosangue, nel fiore dell’età e della seduzione.
Vadinho, il più scatenato di tutti, vedendo il gruppo che spuntava all’angolo, e udendo il pizzicato dello scheletrico Mascarenhas al chitarrino sublime, avanzò rapidamente e piazzandosi di fronte alla romena dalla pelle più scura – una ragazzona monumentale come una chiesa (e doveva trattarsi della Chiesa di San Francesco4 visto che era coperta da una cascata di paillettes d’oro) annunciò:
«Eccomi, mia bella russa del Tororó».5
Lo zingaro Mascarenhas, coperto anche lui di perline e paillettes, con allegri anellini alle orecchie, raddoppiò di virtuosismo al chitarrino; i flauti e i violini sospirarono e Vadinho si gettò nella danza con l’entusiasmo esemplare che metteva in qualsiasi cosa facesse, tranne lavorare. Volteggiava in mezzo al gruppo, intrecciava passi complicati davanti alla mulatta, avanzava verso di lei con figure e contorsioni, quando d’improvviso gli sfuggì una specie di rantolo sordo, vacillò sulle gambe, pencolò da un lato e si abbatté per terra, una bava giallastra alla bocca, dalla quale lo spasmo della morte non era riuscito a cancellare completamente il sorriso soddisfatto del viveur di professione che era stato.
Gli amici pensavano ancora che si trattasse dell’effetto dell’acquavite: non del whisky del piantatore, non sarebbero bastati quei quattro o cinque bicchieri ad aver ragione d’un bevitore della forza di Vadinho; ma che tutta la cachaça accumulata dal mezzogiorno del giorno prima, quando al bar Triunfo della piazza del Municipio si era inaugurato ufficialmente il Carnevale, salendogli alla testa di colpo, l’avesse buttato a terra, addormentato. La mulattona però non si lasciò ingannare: infermiera di professione, conosceva bene la morte, la frequentava giornalmente all’Ospedale. Non era però sua intima al punto da sculettarle davanti, farle l’occhiolino, danzare con lei un samba. Si curvò su Vadinho, gli appoggiò la mano sul collo, sussultò e un brivido freddo le corse per il ventre e per la schiena:
«Mio Dio, è morto!».
Anche gli altri toccarono il corpo del giovane, gli tennero alta la testa dalle ciocche bionde scomposte, cercarono il battito del cuore. Niente da fare, non trovarono nulla. Vadinho aveva disertato per sempre il Carnevale di Bahia.
2
Fu una confusione generale nel gruppo delle maschere e in tutta la strada, un’iradiddio fra i frequentatori del Carnevale e, come se non bastasse, quella scostumata dell’Anete, maestrina romantica e isterica, approfittò dell’occasione per farsi venire un deliquio, con gridolini acuti e minaccia di svenimento. Rappresentazione questa ad esclusivo beneficio dell’indifferente Carlinhos Mascarenhas, per il quale sospirava la delicatina dallo svenimento facile, che si proclamava ultrasensibile e si raggricciava tutta come una gatta quando lui pizzicava il chitarrino.
Lo strumento, ora silenzioso, pendeva inutile dalle mani dell’artista, come se Vadinho ne avesse portato con sé all’altro mondo gli ultimi accordi.
Accorse gente da ogni parte, la notizia si sparse velocemente per le vicinanze, arrivò fino a San Pedro, all’Avenida 7 Aprile, al Campo Grande, richiamando una folla di curiosi. Intorno al cadavere s’era riunita gomito a gomito una piccola folla che commentava il fatto. Fu convocato un medico del Sodré, mentre un vigile, tirato fuori il fischietto, ci soffiava dentro senza posa, come per avvisare la città intera e tutto il Carnevale della fine di Vadinho.
«Eccome se è Vadinho, poverino!» commentò un tizio mascherato con una calza, persa ormai ogni vivacità. Tutti riconoscevano il morto, popolarissimo per la sua scintillante gaiezza, per i suoi baffetti ben curati, per la sua fierezza di vagabondo: benvoluto soprattutto dove si giocava, si beveva, si faceva bisboccia; e là, così vicino a casa sua, non c’era nessuno che non lo conoscesse.
Un altro tipo in maschera, vestito con una pelliccia e un testone d’orso, s’aprì un varco nel gruppo compatto, riuscì ad avvicinarsi, a vedere il morto. Si strappò la maschera, mostrando un viso costernato dai baffi cascanti, una testa calva:
«Vadinho, fratellino, che t’hanno fatto?» mormorò.
«Che gli è successo, di che è morto?» si chiedevano gli altri fra loro, e ci fu anche chi, scegliendo la spiegazione più facile per una morte così inattesa, rispose: «È stata la cachaça». Una vecchia curva si fermò con gli altri, dette un’occhiata, constatò:
«Ancora così moderno,6 perché è morto così giovane?».
Domande e risposte s’incrociavano, mentre il medico appoggiava l’orecchio al petto di Vadinho, in un’ultima inutile constatazione.
«Stava ballando un samba con una vivacità scatenata, e senza dir niente a nessuno è cascato da una parte, già tutto pieno di morte», disse uno dei quattro amici, completamente guarito dalla sbronza, improvvisamente sobrio e commosso e vagamente imbarazzato dalle sue vesti femminili da baiana, il viso imbrattato di rossetto, nere occhiaie tracciate col nerofumo intorno agli occhi…
Jorge Amado (Otabuna, Bahia, 1912-Salvador, Bahia, 2001) è uno degli esponenti più famosi della letteratura brasiliana. Il suo talento è stato riconosciuto non solo in patria, dove nel 1987 è stata istituita la Fondazione Casa di Jorge Amado per conservare e proteggere il suo patrimonio, ma anche all’estero con numerosi premi, tra cui il Premio Etruria della Letteratura (1989), il premio Mediterranean (1990) e il Premio Brancati-Zafferana (1994) in Italia.
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