Una coloratissima saga familiare intrisa di atmosfere che ricordano Cent’anni di solitudine e I figli della mezzanotte, dove tante piccole storie, una più bella dell’altra, si uniscono per dare vita alla grande storia della nascita di una nazione.
1904. Sulle rive del fiume Zambezi, a pochi chilometri dalle maestose Cascate Vittoria, c’è un insediamento coloniale. In una stanza fumosa dell’hotel dall’altra parte del fiume, un esploratore di nome Percy M. Clark, annebbiato dalla febbre, commette un errore che fa sì che il destino di un albergatore italiano si intrecci con quello di un garzone locale. A partire da questo momento si innesca un ciclo di eventi che travolge tre famiglie dello Zambia (una nera, una bianca, una mista) i cui membri si scontrano e s’incontrano nel corso del secolo, nel presente e oltre. Con il susseguirsi delle generazioni, le vicende di queste famiglie, i loro trionfi, i loro errori, le perdite e le speranze, emergono sullo sfondo di un panorama di fiaba, romanticismo e fantascienza. Questo avvincente e indimenticabile romanzo – in cui compaiono una donna completamente ricoperta di peli e un’altra afflitta da una cascata infinita di lacrime, storie d’amore proibite e ardenti battaglie politiche, meraviglie tecnologiche nostrane come afronauti, microdroni e vaccini virali – è una testimonianza del nostro desiderio di creare e attraversare i confini e una meditazione sul lento e grandioso passare del tempo. Definito «il grande romanzo africano del ventunesimo secolo», Capelli, lacrime e zanzare è lo strabiliante esordio di Namwali Serpell.
«Straordinario, ambizioso, evocativo… Capelli, lacrime e zanzare è un libro impressionante. Un esordio strepitoso che ha proiettato la scrittrice Namwali Serpell sulla scena letteraria mondiale».
Salman Rushdie, «The New York Times»
«Una saga multigenerazionale che va oltre il genere, incredibilmente ambiziosa e grintosa. Avrei voluto che andasse avanti per sempre. Un degno erede di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez».
Carmen Maria Machado
«Un’epopea fondante, come l’Eneide di Virgilio… Anche se, nella sua mole tentacolare, nel suo sapore di commedia picaresca e nella sua fusione di tradizione familiare e politica nazionale, ricorda di più I figli della mezzanotte di Salman Rushdie».
«The Wall Street Journal»
«Una narrazione intima, intelligente e scintillante. Questo è un libro stupefacente, il romanzo d’esordio più ambizioso pubblicato in questo decennio».
«The New York Times»
A mamma
Vede intanto Enea nella valletta romita
una selva appartata e un folto profilo di cespugli stormire
e il fiume leteo che lambisce nel suo corso le placide dimore.
Attorno ad esso volavano anime d’innumerevoli genti e di popoli,
e come quando sui prati in un’estate serena le api
si poggiano su variegate corolle e sciamano attorno
a candidi gigli, freme l’intero campo del loro ronzio.
Ha un brivido all’improvvisa visione e ne richiede le cause
Enea che non sa, quale sia quella corrente remota,
quali esseri ne ricoprano le sponde con così intenso affollarsi.
Allora il padre Anchise: «Le anime…»1.
VIRGILIO, Eneide, libro VI
1 Publio Virgilio Marone, Eneide, libro VI, vv. 702-714, trad. di Riccardo Scarcia, BUR, Rizzoli, 2006, pp. 491-492.
Zt.Zzt.ZZZzzzZZZzzzzZZZzzzzzzZZZZzzzzzzzzZZZzzzzzzZZZzzzzo’ona.
E allora. Un uomo bianco come un cencio si ritrova con la barba lunga e si perde nel cuore accecante dell’Africa. A furia di mettere radici e girovagare, fermarsi e ripartire, diventa il nostro padre involontario, il nostro inconsapevole pater muzungu. Questa è la storia di una nazione, non di un regno o di un popolo, perciò inizia, ovviamente, con un uomo bianco.
C’era una volta un bel dottore scozzese che si mise in testa di trovare le sorgenti del Nilo. Trovò invece uno squarcio nel terreno, pieno di una massa d’acqua gorgogliante. I suoi portatori lo chiamavano Mosi-oa-Tunya, che significa ‘Il fumo che tuona’, ma lui lo battezzò come la sua regina. Descrisse le Cascate con solennità dettata dal timore reverenziale, paragonando il precipizio d’acqua a cose inglesi: lana tosata, neve e scintille dell’acciaio ardente, «miriadi di piccole comete che sfrecciavano verso un’unica direzione, lasciandosi dietro raggi di schiuma». Ipotizzò che gli angeli, guardandole, commentassero tra loro: «Che meraviglia». Arrivò persino a suggerire l’imprescindibilità di una catena montuosa sullo sfondo, come uno scenografo.
Avventura. Disastri. Fama. Commerci. Cristianità. Civilizzazione. Fu dilaniato da un leone che lo strinse tra le fauci scuotendolo, disse, come fa un cane con un ratto. La moglie morì di febbre; l’adorato barboncino annegò. Viaggiò per terra e lungo infiniti corsi d’acqua. Al suo passaggio liberò schiavi spezzandone le catene con le sue mani e prendendoli con sé come servitori e portatori. In età avanzata assistette a un massacro: commercianti di schiavi che sparavano agli uomini in un lago, così tanti che le canoe non riuscivano a passare. Si disperò. Era distrutto, rovinato; la regina Vittoria si era dimenticata di lui; alla Royal Geographical Society si diceva che era morto. Poi un mercenario gallese bastardo di nome Stanley suppose, gli strinse la mano e ne mandò notizia a Londra. E in un batter d’occhio fu sulla bocca di tutti, come se si fosse levato dal sepolcro. Eppure si rifiutò di fare ritorno nella Felice Inghilterra.
A dispetto delle difficoltà preferì addentrarsi nel cuore del continente, continuando a cercare l’amato Nilo. Oh, padre muzungu! Il termine significa ‘uomo bianco’, ma non descrive il colore della pelle, bensì una disposizione dell’animo.
Un muzungu è uno che zunguluka – che vaga senza una meta – fino a ritrovarsi a girare in tondo. E così il nostro muzungu errante finì ancora una volta qui, trascinandosi dietro i suoi portatori neri.
La sua cassetta dei medicinali sparì – chi la prese? Non si scoprì mai – e, con essa, il suo prezioso chinino. La febbre lo braccò e alla fine lo stanò. Morì in una capanna, di notte, sul letto, inginocchiato, la testa tra le mani. I suoi uomini lo sventrarono, ne piantarono il cuore sotto un albero e ne trasportarono il cadavere fino alla costa. La nave Vulture di Sua Maestà ne riportò il corpo in patria e le sue spoglie mortali furono sepolte sotto una lapide nella navata dell’abbazia di Westminster. La sua gente lo riconobbe dai segni delle zanne del leone sull’omero.
Mirabile la caparbietà dei suoi portatori. Viaggiare con un cadavere per mesi di fila, subendo perdite, ferite, malattie e battaglie? Tra il caldo torrido e la pioggia torrenziale, sfidando il tabù secondo cui portare la morte significa attrarla? Raggiungere l’Inghilterra, affrontare un interrogatorio, costruire un modellino della capanna in cui era morto? Che fede! Che devozione! No, no: che paura! Quel cadavere, quel corpo era una prova. Senza, chi mai avrebbe creduto alla loro parola, e cioè che un uomo bianco, in mezzo ai “selvaggi”, potesse essere morto per sfortuna, per una banale febbre?
Gli uomini non credono mai che il caso possa avere grandi conseguenze. Eppure la storia di questo posto è piena di simili sbagli. Errore, s. m., dal latino errare: vagare, girare, peregrinare. Per esempio, i bazungu che fecero di questo territorio prima una colonia, poi un protettorato, poi una federazione e infine una nazione, vennero qui solo perché lo aveva fatto Livingstone. Arrivarono e si spartirono la terra, tracciarono linee arbitrarie nella sabbia, strapparono accordi ai capitribù con uno stratagemma subdolo: una “concessione reale” per fini commerciali, che però fu usata per fondare uno Stato. Sventolando bandiere, fucili e perline da barattare, sciamarono in Africa come cani rabbiosi, sostenendo che fosse il lascito di Livingstone.
Né orientale né occidentale, questa nazione, è accidentale. Riuscireste a credere che il nostro devoto dottore scozzese stava cercando il Nilo nel posto sbagliato? Come ormai si sa, ci sono due Nilo – uno Azzurro e uno Bianco – il che significa due sorgenti, e nessuna delle due è da queste parti. Cose del genere succedono con le nazioni, le storie, gli esseri umani e i segni. Si va alla ricerca di una fonte, una proto-parola o un simbolo e improvvisamente la strada si biforca, divisa da un apostrofo o da un trattino. La lingua si divarica, parla in due modi, che a loro volta si scindono, si frangono in una capillarità caotica. Dove si cercava un’origine si trova un immenso balbettio, che è anche un silenzio: un abisso di fumo, che tuona. Bocca cieca!
Le Cascate
È ineluttabile come una sentenza: Victoria Falls. “Cascate Vittoria” certo, ma anche “Vittoria muore”. Una profezia. A ogni buon conto è una battuta che avevo l’abitudine di fare fino a quando Sua Maestà la regina Vittoria non morì davvero nel 1901, subito prima che io approdassi sul continente. Due anni più tardi vidi con i miei occhi quella meraviglia africana che portava il nome di una regina inglese e ne restai incantato come chiunque altro. Ero venuto per le Cascate e, per loro, restai.
Quel che si dice è vero: gli spruzzi si vedono sul serio da una distanza di cinquanta chilometri e da trenta si sente il ruggito dell’acqua. L’ultima parte del nostro cammino da Wankie fu ardua e solo alle undici di sera piantammo le tende a due chilometri dalle Cascate, ai piedi di un baobab gigantesco. Nonostante la stanchezza non potevo permettere che il sonno si frapponesse tra me e la prima visione di quell’enorme precipizio d’acqua. Così lasciai gli altri e mi avventurai per conto mio per osservare le Cascate dall’alto, dalla cosiddetta “Cataratta del Diavolo”. Non lo dimenticherò mai.
La notte era illuminata dal chiaro di luna. In primo piano c’era la scogliera dell’isola di Barouka. Più in là, velate dagli spruzzi, le Cascate si gettavano ruggendo nell’abisso per centoventi metri. Gli spruzzi erano così potenti che era difficile dire se le Cascate precipitassero verso il basso o salissero verso l’alto. Davanti a me si agitavano i rami della foresta nera e ombrosa. L’arcobaleno lunare, pallido e scintillante, conferiva alla scena un’atmosfera fatata. Ero sbalordito oltre ogni dire, come se fossi al cospetto di una potenza grandiosa e ineffabile. Il cappello mi volò via e per un’ora rimasi a capo scoperto, in estasi.
No. Non dimenticherò mai quella visione notturna delle Cascate Vittoria al massimo della loro portata, illuminate dal chiaro di luna. Ho trascorso trentadue anni a due chilometri da quel luogo e sarei pronto a giurare che quello resta il punto d’osservazione migliore.
La mattina dopo celebrai il mio primo incontro con le Cascate incidendo il mio nome e la data sul tronco del baobab: Percy M. Clark. 8 maggio 1903. Quel gesto non era da me, ma considerate le circostanze in fondo era giustificabile. Ripartii per raggiungere l’ansa del fiume otto chilometri più su delle Cascate, il porto d’ingresso alla Rhodesia del Nord-Ovest. In quel punto lo Zambesi raggiunge la sua profondità massima e si restringe come in nessun altro luogo per centinaia di chilometri, per cui è il più adatto per lasciarsi trasportare da una sponda all’altra dalla corrente. All’inizio fu chiamato Sekute’s Drift, dal nome di un capo dei leya. Poi diventò Clarke’s Drift, in onore del primo colonizzatore bianco, che avrei incontrato di lì a breve. Nessuno sa quando divenne l’Old Drift.
Rimasi da solo sulla sponda meridionale per due ore, sparando colpi di fucile a intervalli regolari. Alla fine vidi un puntino, una piroga che arrivava dall’altra sponda. Sembrava così lontana che non ero sicuro che stesse venendo a prendere me; lì il fiume era così rapido che serviva una grande pendenza per dirigere l’imbarcazione nel punto esatto in cui stavo aspettando. Una corrente forte rende difficile governare una piroga – basta un colpo di tosse dalla parte sbagliata per farla rovesciare – ma i barotse sanno tutto del fiume. Stanno in piedi e usano remi lunghi tre metri per manovrare le loro imbarcazioni primitive. Portarono sull’altra sponda prima me e poi i miei bagagli.
L’Old Drift era allora un piccolo insediamento di una mezza dozzina di uomini; all’epoca in tutto il territorio non c’erano che un centinaio di bianchi. Feci sosta in una capanna di fango e pali di legno, un emporio che fungeva anche da “albergo” locale. Il proprietario era un uomo che aveva il mio stesso cognome, solo che il suo aveva la “e” aristocratica appiccicata alla fine. E, se questa coincidenza non fosse già abbastanza incredibile, venne fuori anche che era cresciuto a Chatteris, nel Cambridgeshire, praticamente a un tiro di schioppo dalla città universitaria che credevo di essermi lasciato alle spalle. A quanto pareva non riuscivo proprio a staccarmi dal mio vecchio paese o dalle sue atmosfere.
Fred “Mopane” Clarke – un nomignolo indigeno, perché era «alto e dritto e aveva un cuore come quello di un albero di mopane» – si era stabilito lì cinque anni prima e si era messo a fare lo spedizioniere, per poi avviare un servizio di trasporti lungo lo Zambesi. Più tardi avrebbe fatto fortuna costruendo alberghi e rivendendoli. Quando ci conoscemmo, però, io e lui eravamo semplicemente due uomini che stavano cercando di cavarsela come potevano. Mopane ascoltò divertito il racconto di come avessi lanciato una monetina per scegliere la mia nuova vocazione: a quel tempo la fotografia era un campo relativamente nuovo. Non mi presi la briga di raccontargli della mia espulsione dal laboratorio di chimica del Trinity College.
«Sei uno con le palle!», esclamò. «E anche qui in Rhodesia ci sei venuto così, senza pensarci troppo?».
«Sì», mentii. «Avevo accettato un posto in uno studio a Bulawayo. Ma lo sviluppo e il fissaggio sono un affare rischioso in Africa, a causa della polvere, per non parlare dei diavoli di sabbia. Così ho mollato». Un’altra bugia.
«Ma sei rimasto, a quanto pare. Ti piace la vita nella savana?».
«I coloni sono brava gente. Onesti, allegri. Senza troppa puzza sotto il naso. I kaffir sono sconcertanti, è ovvio, ma sembrano piuttosto docili. Gli insetti sono un vero abominio».
Così partì una raffica di storie sugli insetti. Scarafaggi tam-pam aggrovigliati tra i capelli, scarabei rinoceronte che ti zompettavano sulle parti basse, orride cimici puzzolenti e coleotteri di Natale fischianti. Scorpioni, ragni, millepiedi. Tutte bestie raccapriccianti. Ebbi la meglio raccontando del giorno in cui ero arrivato a Bulawayo due anni prima. Il sole era scomparso dietro una nuvola nera: non una tempesta di sabbia, ma un’invasione di cavallette bibliche! Poi era arrivato il frastuono, uno sferragliare disperato di pentole e vassoi per spaventarle. Un caos infernale, ma aveva fatto effetto.
«Qui ne vedrai ben di peggio», commentò Mopane, criptico. «Hai intenzione di fare il pioniere?».
«Mi basta andarmene un po’ in giro. Il mio vecchio diceva sempre: “Ragazzo mio, non ti fermare mai in un posto finché non sarai costretto a farlo, e non lavorare mai per qualcun altro”. Voglio tentare la sorte, fare qualche piccola esplorazione. Credo che sarò il primo a seguire lo Zambesi dalle Cascate fino alla costa», dissi, in vena di vanterie.
«Come il buon dottor Livingstone».
«Oh. Immagino di sì». Mi scrollai
di dosso l’espressione accigliata. «Ma senza pretese religiose».
Mopane Clarke mi strinse la mano con un ghigno diabolico.
Ero pronto per addentrarmi nella savana. Dopo aver affidato il mio equipaggiamento fotografico a Mopane, partii per Kasangula, un kraal a due giorni e mezzo di cammino. Il capo villaggio era un quinani, un vecchiaccio bizzarro che se ne stava accovacciato sotto il sole tutto il giorno a sniffare tabacco, con addosso una pelle di leopardo e una bandiera inglese a mo’ di cappello. Da lui noleggiai cinque piroghe e cinquanta portatori e mi apprestai a risalire il fiume, avendo in mente di nutrirmi di ciò che avrei cacciato.
All’epoca la caccia era ricca e variegata. Pernici, fagiani, oche, faraone, persino tacchini selvatici.
La terra abbondava di selvaggina, dagli imponenti eland ai piccoli oribi. Il primo esemplare che presi fu un grosso lichi nero: guardò dritto nella canna del mio fucile Martini. Poi fu la volta di una specie di antilope locale che il dottor Livingstone aveva chiamata “puku”: una creatura timida e crepuscolare, più grande dell’impala e con lo stesso mantello dorato, ma senza le caratteristiche strisce e con il pelo più ruvido. Un indigeno mi disse che in lingua locale “puku” significava “fantasma”: Livingstone l’aveva avvistata nella stagione secca, che compariva e scompariva tra l’erba alta e gialla del veld. Se ne ricava un’ottima bistecca.
Per un anno seguii il corso del fiume con la mia modesta flottiglia in maniera del tutto scompaginata. Numerosi ostacoli mi dividevano dalla costa. Anzitutto, i tributari dello Zambesi brulicavano di coccodrilli e ippopotami. E poi non era una passeggiata anche solo convincere i miei uomini a lavorare. Pensavano che portasse male se fischiavo (cosa che facevo soltanto perché non avevo nessuno con cui parlare). E si rifiutavano di attraversare certi punti senza fermarsi per porgere offerte ai defunti e guardare lo stregone “fare il suo lavoro”, con code di animali e amuleti intorno al collo, ossa e bracciali ai polsi e alle caviglie. Lo stregone era uno spettacolo spaventoso, o almeno lui pensava di esserlo. I barotse erano in effetti un popolo potente, che imponeva balzelli a molte tribù sottomesse, e chi si sottraeva era costretto a pagare uno scotto raccapricciante: ho visto indigeni con orecchie che penzolavano dalla cartilagine, nasi dilaniati o mutilati del tutto. E un tale spirito vendicativo prese a un certo punto a esplodere con sempre maggior frequenza anche tra i miei portatori.
Ci eravamo spinti fino a Sesheke quando un ippopotamo rovesciò una piroga costringendoci a perdere diverso tempo, fino a che suggerii di ripartire se volevamo attraversare le rapide prima che facesse buio. «No, non si fa niente adesso!», mi risposero. «Vedremo», replicai tirando fuori la mia .450 Webley e spingendo a bordo gli uomini della mia piroga tenendoli sotto tiro. Dissi agli altri di arrangiarsi se non volevano seguirci. «E niente più rancio per voi!». E mi allontanai con i miei ostaggi per accamparmi ai piedi delle rapide. Quando, al tramonto, vedemmo gli altri apparire, li costrinsi a inginocchiarsi e a strofinare la fronte per terra nel saluto al re. Questo pose fine all’indaba. Avevo avuto la meglio su di loro centrando il punto debole degli indigeni: lo stomaco!
Con simili intoppi, più gli incendi nel veld, gli acquazzoni, le sponde con canne tanto fitte da rendere impossibile l’approdo, feci ben pochi progressi. La difficoltà maggiore delle esplorazioni, scoprii, è l’isolamento tormentoso: impossibile fraternizzare con i negri, ovvio, e il bisogno di una compagnia a me congeniale sarebbe stato insopportabile se non fosse stato per la fox terrier che mi era stata regalata alla miniera di carbone di Wankie. Quella piccola palla di pelo ispido era la mia unica amica, la mia compagna inseparabile. Compresi l’affetto del dottor Livingstone per il suo adorato Chitane, che a quanto si dice morì annegato da queste parti. La mia Flossie aveva un fiuto eccezionale e, anche se non fu in grado di salvare il mio viaggio, alla fine mi salvò la vita.
Namwali Serpell è una scrittrice dello Zambia che insegna presso l’Università di Harvard. Ha ricevuto il Rona Jaffe Foundation Writers’ Award nel 2011 ed è stata selezionata per Africa39, un progetto che mira a identificare i migliori scrittori africani under quaranta. Nel 2015 ha vinto il Caine Prize for African Writing. Capelli, lacrime e zanzare è il suo primo romanzo: fra i migliori libri dell’anno per testate come «The New York Times», «Time», «The Atlantic», le è valso numerosi premi e riconoscimenti, fra cui l’Arthur C. Clarke Award, l’Anisfield-Wolf Book Award, il Windham Campbell Literature Prize e il Grand Prix of Literary Associations.
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