Trama
Vuoi vivere un’altra vita? Vuoi essere un’altra persona? Non sempre è la scelta giusta.
«Clara Sánchez è un esempio perfetto di fine narratrice di sentimenti» – Roberta Scorranese, Corriere della Sera
«I romanzi di Clara Sánchez attingono alla vita» – Maria Grazia Ligato, iO Donna
L’elegante edificio si staglia di fronte a lei. Sonia alza lo sguardo per seguirne il profilo fin dove incontra il cielo. Non ricorda come si sia trovata a lavorare in uno degli alberghi più lussuosi della città. In fondo, nella vita, si è sempre sentita una figurante più che una protagonista. A volte, però, sogna di essere un’altra, qualcosa di diverso da una semplice cameriera. Quando le viene chiesto, forse per la sua straordinaria somiglianza con la ragazza, di occuparsi della giovane Amina, in visita a Marbella con la sua ricca famiglia, da un giorno all’altro Sonia viene introdotta in un mondo di sfarzo e desideri immediatamente esauditi, un mondo di donne misteriose e molto lontane da lei. Finché Amina le fa una proposta: scambiarsi di ruolo per un giorno. Si somigliano talmente tanto che nessuno se ne accorgerà. Vivere la vita di un’altra persona per ventiquattr’ore. Farlo per davvero. Sonia legge negli occhi della ragazza una disperata voglia di libertà e accetta. Eppure, quando l’alba sta ormai per sorgere, Amina non fa ritorno. Sonia si sente ingannata da una persona che voleva soltanto aiutare. Ora deve fare di tutto per cercarla e riprendersi la sua identità, perché il mondo dorato in cui è finita è rischiarato dal luccichio di mille diamanti che, in realtà, sono solo fondi di bottiglia. Deve scappare. Ma anche fuori da lì non può svelare a nessuno il suo segreto. Una rete di menzogne e ricatti la circonda. Sonia capisce allora che lei e Amina hanno in comune molto più di quanto pensasse. Se sei una donna la verità non conta, i tuoi desideri non contano. Devi solo guardarti le spalle da chiunque. Anche da te stessa. Clara Sánchez è l’autrice spagnola più amata in Italia. I suoi libri scalano le classifiche e conquistano le pagine della stampa più autorevole. Soprattutto, sono un appuntamento fisso per i lettori. Ora torna con un nuovo romanzo sul peso delle scelte. Sulle apparenze che non sempre ingannano. Sull’indipendenza delle donne, che resta ancora una sfida aperta per la quale vale sempre la pena di lottare.
Estratto
1
Fra tutte le principesse e le sceicche della nobiltà del Vicino Oriente, le più ambite al Beach Club erano le saudite.
Formavano una macchia nera accanto alla piscina, e a volte il riflesso dell’acqua scivolava sulla stoffa dei loro abiti creando dei luccichii azzurrini. Gli occhi, l’unica parte visibile insieme alle mani e ai piedi, erano nascosti dietro occhiali di Dior o Givenchy, ma quando qualcuna se li toglieva compariva uno sguardo profondamente nero, brillante e placido come laghi al chiaro di luna. Il resto del volto era coperto da un velo così sottile che si attaccava e si staccava dalla bocca con il respiro.
Non potevano votare, uscire da sole, sposarsi liberamente o indossare un bikini o un paio di semplici pantaloncini in pubblico, eppure risultavano spettacolari semidistese sui letti balinesi con i loro orologi di diamanti, zaffiri, smeraldi, rubini e diversi tipi di oro.
All’inizio mi intimidiva servire loro da bere. Non sapevo come avrebbero reagito di fronte a un mio errore. Non molto tempo prima avevo letto sul giornale che una signora kuwaitiana aveva scaraventato giù dalla finestra di un grattacielo la sua domestica per averle macchiato il vestito. E, per quanto fosse improbabile che in un impeto di rabbia qualcuna di loro mi buttasse in piscina, non mi avrebbe fatto piacere essere la causa di un conflitto che potesse arrecare un danno al Beach Club.
2
L’autobus che mi portava da Madrid passò sotto un arco con la scritta MARBELLA. Eravamo alla fine di giugno e un’aria pesante faceva piegare le palme fin quasi a sfiorare il suolo, cosa che interpretai come un segnale di benvenuto. L’estate si schiacciava contro il finestrino cercando di entrare. Le ombre si allungavano sui muri esageratamente nere, come dipinte con il catrame. Una coppia sulla quarantina con i bermuda, i piedi sporchi di sabbia e i capelli scompigliati, si trascinò stancamente lungo un attraversamento pedonale tremolante. Si vedevano condomini, villette e più in là, sulle colline, i tetti delle magioni in cui probabilmente si rifugiavano tutti quelli che comparivano sui rotocalchi.
Presi un taxi per raggiungere l’appartamento che Karen mi aveva prestato fino a settembre insieme a una Renault 5 piuttosto malconcia e al suo posto di lavoro come cameriera al Beach Club, mentre lei ne approfittava per trascorrere le vacanze nel suo paese. Eravamo amiche da quando ci eravamo conosciute alla scuola di lingue nove anni prima, al primo corso di arabo, una lingua molto in auge, come il cinese, il russo e l’inglese, che si supponeva ci avrebbe aperto le porte del mondo del lavoro. Lei si era diplomata a pieni voti. Io invece avevo abbandonato gli studi al quarto anno, annoiata e disillusa… perché? Non me lo ricordo bene, per nessun motivo in particolare. Semplicemente un giorno avevo smesso di andare a lezione, poi anche quello dopo, e alla fine non ci ero più tornata. Non mi aspettava nessuno, né lì né da nessun’altra parte. Ogni passo che facevo da mattina a sera era come cercare di correre sul fondo del mare. Lo psicoterapeuta che mi aveva preso in cura dopo la morte di mio padre l’aveva definita depressione, una parola che solo a sentirla mi lanciava verso il letto e la scatola di Lorazepam. Per questo ero stata in grado solo di trovare un lavoro part time nel fast food di un centro commerciale passato di moda, mentre Karen era stata assunta come cameriera per la clientela vip del Beach Club di Marbella, dove, secondo la leggenda, si usava lo champagne persino per lavarsi le mani ed erano tutti pieni di soldi. A Karen piaceva tantissimo l’idea di stare gomito a gomito con la gente famosa e sfaccendata che compariva su «Hola» e conoscere tizi con yacht e aerei privati. Non le importava che fossero bassi, grassi e brutti. La bellezza fisica non la colpiva, probabilmente perché proveniva da un paesino della Finlandia in cui erano più o meno tutti biondi, con gli occhi chiari e il fisico asciutto, una conseguenza del fatto che non scendevano mai dalla bici e se ne stavano perennemente dentro la sauna, che concludevano infilandosi in un buco fatto nel ghiaccio.
Karen non era consapevole neppure di quante attenzioni attirava su di sé. Alta, magra, con i capelli lisci color miele che le rimbalzavano sui fianchi quando camminava e occhi di un azzurro così chiaro che qualunque soffio d’aria avrebbe potuto strapparlo via. Vedendola con quell’aspetto da principessa medievale che vive nel suo mondo immaginario, nessuno avrebbe detto che era abituata a spalare la neve per andare a scuola, a sopravvivere a molti gradi al di sotto dello zero e a mangiare patate e aringhe affumicate fino alla nausea. Era comprensibile che fosse attratta dal denaro e dal lusso, dalla prospettiva di sposarsi con un magnate e tutto il resto. Sapeva perfettamente cosa voleva e cosa le interessava, una cosa a proposito della quale lo psicoterapeuta aveva iniziato a catechizzarmi da quando avevo dieci anni, dicendomi che è al novanta per cento la chiave di ogni tipo di successo. Purtroppo io ero arrivata ai ventisette anni senza trovare niente che mi affascinasse davvero. Potevo fingere interesse ed emozione, ma non mi uscivano dal profondo del cuore.
Quando mi era arrivata la proposta di Karen, che mi chiedeva di sostituirla al Beach Club, mia madre aveva fatto i salti di gioia. Aveva voluto credere che andare al mare mi avrebbe instillato energia ed entusiasmo. «Gli ioni negativi ti puliranno l’aura e farai qualcosa di diverso, tesoro», aveva detto con la fatica provocata dallo sforzo incessante di tirarmi su di morale. E io avevo pensato che con quei soldi avremmo potuto saldare il debito causato da me e dal mio ex fidanzato, David, che la costringeva a fare in continuazione gli straordinari come assistente sanitaria in una clinica, una sensazione terribile che mi rendeva ancora più abbattuta. Il taxi si fermò a Miraflores, una strada laterale che cedeva il passo a un giardino. Bisognava attraversarlo e costeggiare la tipica piscina degli anni Ottanta a forma di fagiolo, nella quale si stava scatenando un gruppo di bambini, fino ad arrivare a una scalinata.
Dovevo cercare il numero trentadue. Le porte erano color indaco e il complesso aveva l’aspetto decadente di una struttura che era stata quasi di lusso in altri tempi, prima che comparissero le linee rette e le vetrate panoramiche.
Tirai fuori le chiavi che Karen mi aveva mandato per posta e non appena aprii la porta mi ritrovai faccia a faccia con il salottino, separato dalla cucina da un ripiano. Di fronte c’era un terrazzino dal quale s’intravedeva in lontananza un pezzetto di mare. Perciò quello era il mondo di Karen. Improvvisamente mi sentii bene. La brezza spingeva sui mobili le tende, bianche e trasparenti, che poi si spostavano come un velo dal viso di una sposa. Mi tranquillizzava la sensazione di non dover fare nessuno sforzo particolare, solo entrare nella vita di Karen e lasciarmi trasportare. Aprii i rubinetti e inspirai profondamente l’odore di tubature e di acqua salmastra delle case vicino al mare mentre sistemavo lo zaino nell’unica stanza da letto che c’era, piuttosto carina in realtà, occupata da un letto matrimoniale con la testata di legno bianco decapato. Sul comodino, decapato anch’esso, erano appoggiati i sex toy più all’avanguardia consigliati dalla rivista «Marie Claire» e le istruzioni per l’uso. Nell’armadio erano appesi sulle grucce alcuni vestiti, shorts e bikini, che senza Karen dentro risultavano volgari. Almeno senza la Karen che conoscevo io e che non vedevo da quattro anni. Mi sorprendeva che non si fosse già trasformata nella compagna di un multimilionario e che non vivesse in una di quelle magioni invisibili al popolino.
In ogni caso nell’appartamento aveva lasciato la sensazione che nulla di ciò che sarebbe potuto succedere sarebbe stato troppo brutto.
Mi feci la doccia, mi infilai un paio di pantaloni dal taglio classico che avevo comprato da Zara, una camicetta con i fiorellini, la migliore che avevo, un paio di sandali con un po’ di tacco e gli occhiali da sole con la montatura tartarugata, per i quali mia madre doveva aver buttato metà dello stipendio nella speranza che mi facessero fare una buona impressione sul mio nuovo posto di lavoro, e mi misi in spalla una borsa di tela promozionale del fast food. Innaffiai un ficus moribondo, ritirai qualche bicchiere dal ripiano, cercai di scoprire se c’erano zucchero e caffè, pensai che avrei comprato un po’ di latte e frutta e fui inondata da una pace che non provavo da quando ero piccola, da prima della morte di mio padre, quando non dovevo trionfare né fallire, né innamorarmi, né far sì che qualcuno si innamorasse di me, né possedere niente di mio, né pensare seriamente alla vita. Uscii e mi avviai verso il Beach Club.
Secondo le informazioni che mi aveva dato Karen si trattava di un complesso alberghiero fondato negli anni Cinquanta, famoso all’epoca per la piscina lunga, azzurro cielo e soleggiata, circondata da ombrelloni in fibra di cocco e letti bianchi con le zanzariere a cui non era ancora stato dato un nome, e un campo da golf, il cui verde irlandese si precipitava a ondate verso il mare. Nei decenni successivi gli impianti erano stati ampliati a mano a mano che la zona aveva iniziato ad attrarre gli europei ricchi e aristocratici prima e gli arabi ricchi e aristocratici poi, rendendola una delle più care al metro quadrato del paese. Karen immaginava che quell’informazione dovesse interessarmi e mi sarei sforzata di fare in modo che fosse così per gratitudine nei suoi confronti. Mi sarei sforzata in generale per non mandare tutto all’aria per l’ennesima volta.
Sulla cartina il disegno dell’hotel risaltava come quello della cattedrale e non sembrava che fosse troppo lontano dall’appartamento di Karen, perciò mi misi a camminare in parallelo rispetto all’Autovía del Mediterráneo mentre il sole mi picchiava in testa e sulle spalle con tutta la sua cattiveria. Gli oleandri rosa e rossi emanavano un profumo velenoso che saturava l’aria. Camminavo tra il mare a destra e decapottabili alla mia sinistra guidate da uomini e donne con occhiali scuri e chiome che si muovevano nel vento come fili d’oro. Li ammirai finché, dopo un’ora interminabile, quando mi s’iniziava ad annebbiare la vista, m’imbattei in un gruppo di palme alte dieci metri e una targa di ferro arrugginita ad arte che annunciava il Beach Club, il mio nuovo posto di lavoro se le cose non si fossero ingarbugliate.
Avrei sostenuto il colloquio con un certo Fabián, che Karen mi aveva descritto come il miglior direttore d’albergo della Costa del Sol, un uomo intelligente, sensibile, eccezionale, che le sarebbe dispiaciuto molto deludere. E questo m’innervosiva, ero abituata al fatto che nessuno si aspettasse niente da me né io da nessun altro, a non avere aspettative, e adesso non dover deludere il direttore in modo che non venisse deluso da Karen mi faceva venire un nodo allo stomaco.
L’hotel era più o meno come nelle immagini su internet, con l’aspetto di un cortijo elegante, di un bianco radioso, pavimenti in cotto e cactus giganti. Molto bello. La piscina era fatta in modo da simulare che tracimasse nel mare, una cosa che in pieno 2004, l’anno in cui eravamo, era piuttosto comune, ma che quando era stata inaugurata doveva aver fatto scalpore. Alla reception comunicai il mio nome, Sonia Torres, la sostituta di Karen. Dovetti dare altre indicazioni: mi aspettava il direttore. Qualcuno alzò la cornetta e disse qualcosa a voce così bassa che non lo capii, il tono della riservatezza selezionata. Avevo bisogno di bere, avevo la bocca completamente secca, ma riuscii a rimanere in piedi finché non comparve una ragazza dai capelli corti con una gonna a tubino nera e una camicia bianca con il colletto alla coreana, accompagnata dal rumore dei suoi collant quando si sfioravano. Mi chiese di seguirla in una sala che aveva l’aspetto di una biblioteca accogliente, con un camino sormontato dal ritratto di un tizio abbronzato con maglione a collo alto e giaccone da marinaio che assomigliava alle foto del principe von Hohenlohe, che comparivano spesso su «Hola»… o forse era proprio lui.
L’ Autrice
Clara Sánchez è l’unica scrittrice ad aver vinto con i suoi romanzi i tre più importanti premi letterari spagnoli: il premio Alfaguara con La meraviglia degli anni imperfetti, il premio Nadal con Il profumo delle foglie di limone, bestseller che ha venduto un milione di copie, in cima alle classifiche di vendita per oltre due anni, e il premio Planeta con Le cose che sai di me. In Italia sono tutti pubblicati da Garzanti, come anche La voce invisibile del vento, Le mille luci del mattino, Entra nella mia vita, Lo stupore di una notte di luce, La forza imprevedibile delle parole, L’amante silenzioso e L’estate dell’innocenza.
“Cari lettori come potete vedere non ho inserito il link per l’acquisto del libro on-line, visto il periodo difficile che stiamo attraversando ho deciso di aiutare le librerie indipendenti.
Per questo motivo per l’acquisto del romanzo sarebbe bello recarsi in una libreria indipendente più vicina a casa vostra, oppure farselo spedire a casa.
Grazie, Jenny