Buongiorno lettori, dopo il romanzo ” La bambina del buio” il 18 Aprile 2019 arriva in tutte le librerie il sequel “Chiedi alla notte” della scrittrice Antonella Boralevi .
Un nuovo travolgente mistero da decifrare per Emma e Alfio nella Venezia che scintilla!
Il peccato
Non respira. Non ce la fa a respirare. Aria. Aria. Aria. Spalanca la bocca forte forte forte più forte che può.
Ingoia paura.
Uno spasmo.
E l’aria.
Ingoia aria e sangue e saliva.
Il peso sul petto è sempre più forte. Sempre più forte. Strizza gli occhi per non vedere per non sentire per scappare via dalla paura di morire.
Il corpo è solo dolore.
Il peso di colpo si allenta. Il petto si dilata. Il respiro torna.
Rimbomba.
Ma non è respiro.
È grido.
Un urlo lungo. Tutto il suo corpo urla.
Un gomito duro contro la gola.
Il viso si riempie di sangue e di moccico.
Per favore Per favore Basta Basta Basta.
E finalmente il buio.
La festa
Villa «La Favorita» sul Terraglio
16 agosto 1985
Al crepuscolo
La prua della lancia apriva l’acqua verde. Era l’ora dolce in cui il mondo ti accarezza. L’oro fermo del crepuscolo disegnava ombre flessuose sulla facciata delle ville antiche, oltre i viali di lecci, dietro gli aghi appuntiti dei grandi cedri del Libano.
La musica arrivava fino al canale.
«Oh no, ancora Mamma miaaa», sbuffò Alvise e alzò il braccio verso il cielo con l’indice puntato, muovendolo come una molla.
«Tanto non sai ballare», disse Alina. Aveva un tono piatto. Definitivo.
Alvise continuò a mimare a tempo la figura della disco dance, ma si capiva che aveva perso parecchia della sua convinzione.
«A me questi quarantenni che non vogliono invecchiare fanno decisamente pena», stabilì Benedetta Guazzoni, mentre controllava la scollatura del suo abito di maglia metallica di Versace, appena comprato nella boutique più chic di Verona.
«Se festeggiassi anche tu venti anni di matrimonio, ti faresti meno pena.»
Tutte le facce si voltarono verso il divanetto di poppa.
La lancia dei Guazzoni arrivava direttamente da un felice acquisto a una asta giudiziaria. Era appartenuta a un anziano Conte veneziano, che si era mangiato il patrimonio come si usava ai suoi tempi, con le donne e con il gioco. Ogni volta che Bino Guazzoni si sedeva in cabina, sulle poltroncine da salotto che scivolavano pericolosamente seguendo l’onda, gli veniva fatto di pensare a quante cosce, quanti sederi e quante altre varie meraviglie dovessero aver visto quelle stoffe graziose, di lino tessuto a mano da Rubelli, bordate dal cordoncino blu.
Era Conte anche lui, con il solito apparato di palazzo e campagne, ma era molto più saggio di quel coglione fancazzista. Lui era diventato ingegnere e aveva messo su un’impresa di costruzioni, palazzine popolari e commesse comunali e, se capitava, anche qualche pezzo di autostrada.
Sua sorella ogni tanto faceva battute sceme. Dato che i loro genitori erano morti da tempo, Bino si sentiva in dovere di cercare di educarla in qualche modo. Lo faceva con una durezza che stava dalle parti della noia, più che della cattiveria. Ma guardando le facce degli altri, si rese conto di essere stato davvero sgradevole. Ricordare a sua sorella che non era ancora sposata, alla avanzatissima età di trentadue anni, non era stato per nulla elegante. Gli era scappato. In realtà, parlava a sé stesso, più che a lei. Perché anche Bino, magnifico esemplare dell’antica e autorevole nobiltà veronese, non era sposato. E di anni ne aveva più di quaranta. E stava andando a festeggiare il matrimonio durevole di una ragazza che non era adatta a lui, ma che gli era piaciuta dal primo momento. Se l’era trovata davanti, in un bikini troppo vistoso, sulla spiaggia infinita del Lido, stesa al sole, di fronte al capanno che il marito aveva affittato per la stagione per una cifra imbarazzante.
«Ma secondo voi», Clotilde Guerra fece una pausa carica di ogni significato possibile, «gli Zanca sono felici?»
Aspirò il fumo della sigaretta con il gesto più teatrale che sapeva fare. E proprio mentre rovesciava la testa all’indietro, quel tanto indispensabile affinché Bino potesse perdersi dentro la scollatura del suo vestito di Gucci bianco latte, il marinaio prese male un’onda. La lancia sobbalzò. Clotilde ebbe la prontezza di cadere proprio sulle ginocchia di Bino e gli scoccò un sorriso in cui aveva messo tutte le promesse di cui disponeva.
«E chi lo sa?» rispose Barbara Tron.
Guardava nel vuoto, oltre la riva macchiata di verde, dietro le ombre inquiete delle canne alte.
Francesco Tron pensò bene di sporgersi verso di lei e le buttò il braccio sulle spalle nude. Il tepore della pelle di lei lo stupiva ancora. E la dolcezza. Una pelle da bambina molto piccola. Una bambina molto triste che lui, da quasi dieci anni, si sforzava di far sorridere.
Ma Benedetta non era il tipo di ragazza che si lascia zittire.
«Come si fa a sposare una che si chiama Manuela e viene da Portogruaro?» disse scuotendo la testa. Poi scoppiò a ridere e allargò le braccia, rispondendosi da sola. «A chi piace…»
Suo fratello la trovava insopportabile quando recitava la parte della donna di mondo. Gli venne voglia di mollarle una sberla, come si fa con i bambini dispettosi.
Ma si trattenne.
Il pensiero di Manuela gli invase la testa e poi scese giù, giù, fino al cavallo dello smoking, lì, nel punto esatto dove il bottone del tirante teneva la camicia perfettamente a piombo dentro i pantaloni.
Stefano Gallo ritenne che quello fosse il suo momento. Non si capacitava ancora della fortuna che gli era toccata. Essere ammesso sulla lancia dei Guazzoni per arrivare, nella maniera più principesca possibile, alla festa dell’anno. Era fiero di navigare per la via d’acqua del canal Salso, da Venezia alla villa forse palladiana che Paolo Zanca si era appena comprato per festeggiare il decimo miliardo.
Altro che anniversario di matrimonio.
Perché la storia lui la sapeva. E gliela invidiava anche un po’, a Paolo. Perché avere quarantatré anni e duecento dipendenti e quaranta miliardi di fatturato, cominciando da elettricista senza nemmeno aver finito le professionali, un certo rispetto glielo incuteva. A lui, che gli toccava far finta di preparare il concorso da notaio un anno sì e uno no, perché suo padre gli voleva lasciare lo studio in Piazza San Marco, alle Procuratìe. Lo studio del padre di suo padre, Gallo Notaro in Venezia. Lo studio che dalle finestre si vedevano i mori che sbatacchiavano le loro mazze per fermare il tempo.
E lo fermassero una volta per tutte, accidenti, pensava Stefano.
«Lo sapete, vero, che il padre di Paolo era un venditore ambulante?» disse Stefano con la noncuranza che gli pareva avrebbe accresciuto il suo prestigio in quel mondo snob dove aspirava a entrare.
«E cosa vendeva?» chiese Benedetta, voltandosi verso di lui. Un po’ curiosa e un po’ annoiata.
«Girava per le fiere di paese, in Veneto, in Friuli. Con un camioncino. Penso che vendesse pentole, ciabatte, coltelli, roba così.»
«Cioè Paolo ha messo su la Param dal niente?» disse Barbara Tron inclinando la testa graziosa verso un raggio di sole stanco. Sospirò. A Francesco salì in gola un fiotto di gelosia stupida.
Stefano Gallo faceva la ruota.
«Allora, la Param è in effetti un’azienda solidissima. L’idea vincente è stata produrre filo metallico lucido, cromabile e stanox, ma soprattutto il ramato steel wire. Lo fa praticamente solo Paolo nel mondo. Comunque non ha fatto tutto lui, perché ha cominciato nel ’59 e io dico che il ’59 era il momento in cui qualunque mona avesse un’idea, ci faceva soldi veri. Era il Boom, ve lo ricordate?»
Barbara si spostò sul divanetto per inseguire il raggio di sole che spariva.
Francesco e Bino si scambiarono un’occhiata che, se il povero Stefano l’avesse vista, avrebbe incenerito tutte le sue speranze.
«Ci siamo quasi», sussurrò Alina da Ponte, presa da quella strana malinconia che piomba addosso alle anime troppo sensibili quando devono affrontare una festa molto rumorosa.
La grande villa splendeva.
«Take a chance on me, take a chance take a chance take a chance take a chance on me», supplicava, con un ritmo irresistibile, la cantante degli Abba. La musica arrivava a folate, il viale lungo dei platani faceva da cassa armonica. E c’era quel verde intenso e mobile. C’era tutto quello splendore. I rami scintillavano del sole della sera. Lasciavano che le foglie si baciassero, sfiorandosi nella brezza che veniva dal mare.
«Take a chance take a chance take a chance Take a chance on me.»
Di colpo, la festa si impadronì di loro. Li ingoiò dentro le sue promesse. Seppellì da qualche parte, in un recesso del cuore, le loro angosce.
Scesero allegri, le ragazze sollevando con un gesto abile ed elegante la gonna dei loro abiti lunghi. Gli uomini porgevano loro la mano dalla certezza del pontile.
«Però grande, questo imbarcadero», ammise Benedetta e allargò le braccia, arresa.
«Guarda che Paolo è sposato», la canzonò Clotilde Guerra.
Ma Paolo piaceva anche a lei.
Oltre il cancello di ferro, in fondo al viale dei platani, Villa «La Favorita» sbucava come una promessa.
Balenava nella luce incerta della prima sera.
Le torce di bambù, infilate nella siepe del bosso, erano già state accese. Il giallo caldo della facciata ondeggiava, come se la casa fosse un riflesso sull’acqua.
Avanzavano lentamente, in silenzio, all’improvviso intimiditi dalla bellezza. La ghiaia crocchiava sotto i loro passi, Alvise e Alina allacciati come se si amassero, Bino assediato da Clotilde. Barbara appoggiata al braccio del marito, come se fosse già stanca.
Stefano Gallo decise di insistere con il suo momento di gloria. Indicava il timpano dove un’aquila enorme spalancava le ali di stucco su quattro magnifiche colonne di candida pietra di Verona. «Paolo ci dovrebbe mettere un trafilato di metallo, al posto dell’aquila», disse spavaldo. Ma poi si accorse di essere l’unico che rideva.
«Perché non uno dei miei bidet?».
Zano Zanon dei sanitari Zanon, ottanta miliardi di fatturato, gli arrivò a sorpresa dietro le spalle e gli mollò sulla schiena una pacca feroce che sembrava più uno spintone.
Stefano barcollò. Il cuore prese a battergli senza controllo.
«Attento, Gallo, che i nouveaux riches si tengono bordone», lo prese subito in giro Benedetta.
Stefano trasalì cercando di restare in piedi.
Zano Zanon non sembrò che se la fosse presa. Invece si aggiustò la giacca dello smoking, che non pareva nemmeno la sua tanto gli stava stretta e abbrancò con le manone sudate Benedetta e la sua scollatura.
Lei si scrollò rapidissima, ma con grazia.
Stefano Gallo si stava riprendendo dalla botta ricevuta e provò a vendicarsi.
«Non è cosa, Zanon, non è cosa», sghignazzò.
«Cosa è cosa?»
C’era una vena sottile di ansia nella voce di Adele. Era rimasta indietro, incerta sui tacchi troppo alti. Il marito l’aveva seminata senza riguardo. A lei quelle feste lì mettevano sempre paura. La paura di sbagliare: un saluto, una parola, il vestito, le scarpe, la posata da scegliere. Ma conosceva Manuela Zanca dai tempi delle medie, a Portogruaro. Era salita con lei su per la scala sociale, arrampicata sui water del marito, sempre con l’angoscia di scivolare.
Lei non era come Manuela. Non era neanche bella come Manuela. Non era mai stata la bella del paese. Non aveva il seno all’insù di Manuela e neanche i suoi capelli lunghi e lucenti, attorcigliati come quelli delle sirene.
Non si era sposata a diciotto anni perché era incinta.
Che tragedia quel bambino nato morto.
Anche i suoi erano contadini, si svegliavano alle quattro per andare nei campi, come quelli di Manuela. Ma, diversamente da Manuela, Adele non se lo poteva scordare. Aveva quarant’anni e tutti i segni del benessere economico. Ma una parte, nemmeno tanto piccola di lei, temeva sempre che di colpo scoccasse una mezzanotte tragica e tutta la sua vita ritornasse a essere una zucca circondata dai topi.
Bino Guazzoni ebbe pietà di Adele.
«Sarà una festa bellissima», disse, abbracciandola con decisione in modo che il gran seno gli si appoggiasse addosso. Molle ma appetitoso, pensò. E aumentò la stretta, strappandole uno strilletto di stupore delizioso.
Avevano già oltrepassato i pilastri del cancello spalancato. Camminarono verso le luci.
Dall’ombra del viale, due statue austere, coperte di licheni, una Pomona con i fianchi grigi di muffa e un Apollo trionfante, si voltarono a guardarli.
La notte cadde come un velo nero.
L’aperitivo
Seguivano le voci, la musica.
If there’s something strange in your neighborhood Who you gonna call?
Ghostbusters!
«Ghostbusters», urlò a squarciagola Benedetta. «Tatatatatatata Tatatatarà.»
«And I don’t look good», fece Clotilde prendendola per un braccio. «Da da da da da babababà.»
Volteggiavano sul viale di ghiaia muovendosi come su una pista da ballo, una allacciata all’altra. Protendevano i loro seni giovani in avanti, piegando il busto, fino quasi a sfiorarseli. E ridevano come pazze.
«Sono matte», stabilì Bino. E sbuffò mentre passava loro accanto, senza degnarle di uno sguardo.
Zano Zanon invece pareva molto interessato. Si sfilò la giacca con una manovra inaspettatamente elegante, e si mise a ballare anche lui. Abbrancava una delle ragazze, le faceva volteggiare, e intanto urlava «Ghostbuster! Ghostbuster!» che era l’unica parola di inglese che conosceva.
Tutto il giardino vibrava dei colpi delle chitarre elettriche, l’erba si inchinava per guardare e persino la cappellina bianca, chiusa per discrezione, si sporgeva dagli scalini sognando di essere giovane e viva, in quella sera caldissima di metà agosto, riempita dai giri dei contrabbassi e del desiderio.
«If you are all alone pick up the phone…» si trovò a sussurrare tra sé Francesco Tron, mentre si teneva stretta al cuore la figurina esile della moglie. E gli venne fatto di appoggiarle le labbra sui capelli fini, per darle un bacio di cui lei non si accorse.
Girarono dietro le barchesse, inseguendo la musica.
Sotto il pergolato delle rose, era stato apparecchiato il cocktail. Lunghi tavoli coperti da tovaglie candide, calici di cristallo di Boemia, enormi secchielli d’argento pieni di bottiglie di champagne. Camerieri alti, magrissimi, impeccabili nelle loro giacche bianche, con guanti immacolati e farfallina nera, giravano esibendo agli ospiti i vassoi di bouchées con un gesto largo, teatrale. Stavano attenti a tenere la mano libera piegata dietro la schiena, come avevano appena imparato alla scuola alberghiera. Ma a qualcuno sfuggiva un colpo di tacco sulla ghiaia, al ritmo della musica.
C’era un rumore pazzesco. Tutti si baciavano, gridavano cose che nessuno riusciva a capire, si davano pacche, si facevano riverenze per scherzo, agitavano i bicchieri, mimavano i passi della dance, alzavano le braccia al cielo, puntando l’indice alla luna che saliva, rossa e grandiosa, proprio dietro gli olmi del laghetto.
La festa era già decollata prima di essere cominciata.
Paolo Zanca era fermo all’ingresso del pergolato, accanto a sua figlia.
Il gruppetto si bloccò a salutarlo.
«Benvenuti», disse Paolo.
Si capiva che era fiero. Di tutto. Della villa che da secoli aspettava di diventare sua. Delle siepi di bosso perfettamente potate. Dei rami dei lecci gonfi di foglie. Dei tronchi delle grandi querce spalancate come ombrelli sul prato appena rasato. Del viale che non finiva mai. Della facciata giallo fiorentino, degli stucchi, delle persiane grige, delle statue, delle balaustre, dei capitelli, dei camerieri, dei tavoli, delle rose.
Ma era fiero, più di tutto, di sua figlia.
Moreschina stava in piedi accanto a suo padre, nella postura della perfetta padrona di casa, anche se aveva soltanto undici anni.
«Ma quella chi è?» sibilò Clotilde a Benedetta, mentre affrettavano il passo sulla ghiaia del viale, arrancando sui sandali e sporgendosi per distinguere le facce anche da lontano.
«Moreschina.»
Trasalirono.
Alle loro spalle c’era Ninni.
Ninni faceva un po’ spavento. A tutti. Tranne che a suo marito.
Uno scheletro di ossa e pelle raggrinzita, di una classe assoluta. Quella sera era vestita di un blu cupo, come se volesse dileguarsi dentro la notte. Una specie di tunica, senza maniche, con il taglio inconfondibile di Saint Laurent. Sul seno inesistente le pendeva un ciondolo grosso, a forma di cerchio. Cerchi grandi, di oro giallo, danzavano intorno al viso emaciato, sfiorando la curva dura della guancia.
Il riflesso delle torce che illuminavano il viale le accendeva il viso di fiamme rossastre.
«Ah, sei tu», fece Clotilde. Cercava di nascondere lo spavento con un tono lieve, mondano.
«Ciao Ninni», la salutò Benedetta, che non si faceva impressionare da nulla. Ma dovette fare uno sforzo, perché, da «nulla», era esclusa proprio Ninni. Ninni sola. Ninni con le sue fisime, Ninni con le sue frasi secche, le battute da taglio. Ninni che sembrava mangiata da dentro da qualcosa che non si poteva sapere.
Dance into the fire. Dance into the fire.
Il dj suonava i Duran Duran.
This fatal kiss is all we need.
Uno sguardo su un delitto.
Senza volere, Clotilde rabbrividì.
Benedetta prese in mano la situazione, mentre avanzavano tutte e tre, una accanto all’altra, in direzione della barchessa.
«Ma Moreschina è così grande?»
Ninni le scoccò una occhiata di compatimento.
«Si diventa vecchie», disse.
Benedetta avrebbe voluto trovare una risposta altrettanto affilata. Ma non le venne niente.
«Eh sì», fece Clotilde, improvvisamente arresa.
Avevano tutti quarant’anni. Intorno ai quarant’anni. L’età in cui i giochi sono fatti ma ti sembra che ancora non lo siano. In cui ti viene voglia di afferrare la tua vita e rovesciarla come un salvadanaio, per vedere cosa c’è dentro.
L’età della paura.
Girarono l’angolo del loggiato e videro la folla sparsa tra il pergolato e il prato, una specie di animale unico e gigantesco, fatto di seta rossa e bianca e gialla e rosa e smoking e scolli fino al sedere e pantaloni da torero. Un faro, sistemato ad arte, girava su e giù sopra le teste, cambiando colore secondo la musica.
Per un momento, persino a Benedetta mancò il respiro.
Ninni era già andata.
Trama
1985. In una splendida villa della campagna veneta, Paolo e Manuela festeggiano i loro venti anni di matrimonio. Hanno una bambina dolcissima di undici anni, Moreschina. Tutta la buona società di Venezia è accorsa alla loro festa. Camerieri in guanti bianchi, champagne nei calici di cristallo, danze, flirt, pettegolezzi, allegria. Eppure, dentro la gioia, vibra una nota di inquietudine. Un’ansia che cresce a ogni pagina. La festa finirà con una tragedia indicibile. 32 anni dopo, una inglesina di trent’anni, Emma Thorpe, sbarca a Venezia. Si porta dietro un segreto. E finisce in un Palazzo sul Canal Grande, che nasconde più segreti di lei. Il proprietario è il conte Bonaccorso Briani. Un uomo durissimo, solitario e misterioso. Il destino mette sulla strada di Emma un seducente commissario siciliano, incallito sciupafemmine. Indagano insieme in una Venezia affascinante e insolita, avvolta dalla nebbia, frustata dalla pioggia di novembre. In un crescendo di tensione e colpi di scena, il mistero di tanti anni prima trova finalmente soluzione. È il mistero del buio che tutti ci abita.
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Chiedi alla notte
Dopo il grande successo de La bambina nel buio, Antonella Boralevi ancora una volta va dritta al cuore delle donne.Un thriller dei sentimenti che ti agguanta e non ti lascia andare. Una indagine folgorante sui segreti che le donne si chiudono nel cuore | Venezia, il mondo scintillante della Mostra del Cinema. Red Carpet, feste, fotografi, interviste. E una giovane attrice che è appena diventata una stella. Ma Emily Wilson splende per una sola notte. La mattina dopo la Prima, la trovano affogata, ancora vestita da sera, un cumulo di stracci sulla spiaggia elegante del Lido. Una creatura fatata. Chi mai poteva volere la sua morte? A mano a mano che passano le ore, si svelano uno dopo l’altro tutti i suoi segreti. E ognuno di quelli che le stavano accanto, il regista, il giovane attore, la produttrice, è costretto a rivelarsi per quello che è davvero. Alfio Mancuso, il bel commissario siciliano sciupafemmine, viene chiamato a indagare. E il suo cuore perde un colpo. Lì, al Lido, ecco di nuovo Emma Thorpe. La ragazza che gli è entrata, suo malgrado, dentro la pelle. Insieme hanno risolto due anni prima il mistero sepolto nel tempo della bambina Moreschina. Ora Emma è diversa, il dolore l’ha resa forte. Brillante avvocato di Netflix a Londra, arriva per la Festa dell’Inaugurazione. E il destino la inchioda. Dovrebbe ripartire con il nuovo fidanzato. Ma resta. È ospite in una villa splendida, circondata da un misterioso giardino. Subito Emma sentirà che «La Furibonda» nasconde indicibili segreti. E, più di tutto, li nasconde l’affascinante contessa che la abita, Maria Morosini. Ora dopo ora, il Passato trova la via per spiegare il Presente. C’è un dolore straziante che urla nel buio. Emma e il bel commissario gli daranno pace.