Autrice: Jacqueline Kelly
Casa editrice: Salani Editore
Traduzione di Luisa Dalla Fontana
Genere: Narrativa per ragazzi
Pagine:286
Prezzo: offerta speziale Amazon 8,41 euro
Trama
Nei prati riarsi della calda stagione texana, Calpurnia non può fare a meno di notare che le cavallette gialle sono molto, molto più grandi delle cavallette verdi. Perché? Sono di due specie diverse? Calpurnia ha sentito parlare del libro di un certo Darwin, in cui si spiega l’origine delle specie animali. Forse può trovare quel libro nella biblioteca pubblica? Sì, ma la bibliotecaria non glielo vuole mostrare. Poco male, quel libro si trova anche a casa sua: nello studio del nonno, il libero pensatore della famiglia. Accompagnata dal nonno e dal libro proibito, Calpurnia riuscirà a scoprire i segreti delle diverse specie di animali, dell’acqua e della terra. E scoprirà anche se stessa. Età di lettura: da 12 anni.
CAPITOLO 1
L’ORIGINE DELLE SPECIE
Quando un giovane naturalista intraprende lo studio di organismi a lui del tutto sconosciuti, la sua rima grande perplessità è quella di determinare quali siano le differenze che indicano una specie e quali una varietà, poichè egli non sa quale sia la quantità delle variazioni a cui il gruppo è soggetto…
Nel 1899 avevamo imparato a vincere l’oscurità,ma non il calore del Texas. Ci alzavamo al buio, ore prima dell’albe, quando in cielo, verso oriente, c’era solo una sbavatura di indaco e il resto dell’orizzonte era ancora pece allo stato puro.
Accese le nostre lampade a cherosene, le reggevamo davanti a noi oscillanti nell’oscurità, come piccoli soli personali. Dovevamo fare il lavoro di un’intera giornata prima dell’alba, quando il calore mortale ci riportava tutti nella nostra grande casa con le imposte chiuse e, sudati, ci sdraiavamo come vittime sotto gli alti soffitti delle stanze oscure.Il rimedio usato d’estate da mamma di spargere le lenzuola con acqua di colonia rinfrescante aveva effetto solo per un minuto. Alle tre del pomeriggio, quando giungeva di nuovo l’ora di alzarsi, la temperatura era ancora micidiale.
Da noi a Fentress il caldo era un patimento per tutti,ma a soffrire di piu’ erano le donne, con i loro corsetti e le sottogonne. ( Io ero ancora troppo giovane di qualche anno per quella forma di tortura esclusivamente femminile.)Allentavano i busti e passavano le ore a sospirare, maledicendo la calura e anche i mariti, che le avevano trascinate nella contea di Caldwell a piantare il cotone e i pecan, e ad allevare bestiame. Mamma aveva rinunciato temporaneamente ai capelli posticci, una finta frangia arricciata e una coda di crine arrotolata, basi che usava ogni giorno per acconciarvi sopra le sue chiome in complicate montagne. Nei giorni in cui non avevamo compagnia aveva persino perso l’abitudine di ficcare la testa sotto la pompa della cucina e farsi spruzzare da Viola, la nostra cuoca africana per un quarto, finchè non era completamente fradicia. Ordini precisi ci proibivano di ridere per quello spettacolo strabiliante. Scoprimmo (anche Babbo) che quando mamma rinunciava a poco a poco alla propria dignità per il caldo era meglio stare alla larga da lei.
Mi chiamo Calpurnia Virginia Tate, ma allora tutti mi chiamavano Callie Vee. Quell’estate avevo undici anni ed ero l’unica femmina di sette figli. Riuscite a immaginare una situazione peggiore? Ero infilata a metà fra tre fratelli maggiori (Harry, Sam Houston e Lamar) e tre minori (Travis, Sul Ross e il piccolo Jim Bowie, che chiamavano J.B.). I piccoli riuscivano davvero a dormire a mezzogiorno, talvolta addirittura ammonticchiati gli uni sugli altri come marionette umide, fumanti. Dormivano anche gli uomini che venivano dai campi e mio padre di ritorno dal suo ufficio allo sgranatoio, ma prima, con dei secchi di latta, si versavano addosso l’acqua tiepida del pozzo nella veranda in cui dormivano, per poi crollare tramortiti sui loro letti di corda.
Sì, il caldo era una tortura, ma mi portava anche la libertà. Mentre i miei sonnecchiavano agitati, io andavo di nascosto sulla riva del San Marcos e mi godevo un interludio quotidiano di niente scuola, niente fratelli pestiferi e niente Mamma. Non avevo il permesso esplicito di uscire, ma nessuno aveva detto che non dovevo. Riuscivo a farla franca perchè avevo una camera tutta per me in fondo al corridoio, mentre i miei fratelli dormivano insieme, e sarebbero stati beccai in meno di un secondo. Per quanto ne sapevo io, era la sola cosa passabile dell’essere l’unica femmina.
Tra casa nostra e il fiume c’era una appezzamento a forma di mezzaluna di cinque acri di terreno incolto e coperto di sterpaglia. Sarebbe stato arduo attraversarlo se i frequentatori abituali del fiume (cani, cervi, fratelli) non avessero aperto e battuto uno stretto sentiero in mezzo alla infida lappola, alta quanto me, che mi strappava i capelli e il grembiule mentre mi accucciavo per passarci sotto. Poi mi spogliavo, tenendo solo la biancheria, e facevo il morto con la camiciola che si gonfiava fluttuando dolcemente intorno a me tra le lievi correnti, crogiolandomi nella frescura dell’acqua che mi scorreva intorno. Ero una nuvola del fiume, che ruotava piano nei vortici. Alzavo lo sguardo sui bozzoli traslucidi dell’ ifantria americana, alti sopra di me nel lussureggiante baldacchino di querce chine sull’acqua. Le crisalidi, galleggianti dentro i loro palloni di garza nel cielo turchese chiaro, sembravano la mia immagine riflessa.
Quell’estate tutti gli uomini eccetto mio nonno Walter Tate si tagliarono i capelli a zero e si rasarono le folte barbe e i baffi. Per i sette – otto giorni necessari ad abituarsi ai loro menti pallidi, deboli, parvero nudi come salamandre cieche. per quanto strano, il caldo non dava fastidio a nonno, anche se la barba bianca gli scendeva fino al petto. A suo dire dipendeva dal fatto di essere un uomo con abitudini sobrie e moderate, che non beveva mai whisky prima di mezzogiorno. La sua vecchia marsina puzzolente era irrimediabilmente antiquata, ma lui non voleva sentir parlare di separarsene.Nonostante le regolari spugnature di benzene effettuata dalla nostra domestica SanJuanna, la giacca conservava sempre il suo odore di stantio e lo strano colore che non era nè nero nè verde.
Nonno viveva sotto il nostro stesso tetto, ma era un personaggio un pò irreale. Da tempo aveva ceduto la direzione dell’impresa familiare al suo unico figlio, mio padre Alfred Tate, e trascorreva le giornate impegnato a fare <<esperimenti>>nel suo <<laboratorio>> sul retro della casa. Il laboratorio era soltanto una vecchi rimessa che un tempo faceva parte degli alloggi degli schiavi. Quando non era nel laboratorio, Nonna andava a caccia di esemplari o stava rintanato con i suoi libri decrepiti in un angolo buio della biblioteca, dove nessuno osava disturbarlo…
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