«È con particolare emozione che oggi torno ad accogliervi», disse Josephine Napier, alzandosi dalla scrivania e attraversando lo studio per ricevere la donna appena entrata. «Ho ben presente che questo è il vostro ottavo anno di servizio presso la mia scuola. Credetemi, non dimentico quanto sia in debito con voi. Posso permettermi di dire che in questi sette anni il vostro contributo è stato impareggiabile? Mi consentite di dire almeno questo?».
Josephine Napier, direttrice di un grande istituto femminile in una prospera cittadina inglese, era una donna di cinquantaquattro anni, alta e austera, con qualche ciocca grigia tra i capelli ramati, grandi occhi nocciola, un viso regale, dai tratti marcati eppure semplici, deliberatamente schietta e modesta, mani sorprendentemente ingioiellate, vestita e pettinata in modo da esibire i suoi anni, anziché nasconderli.
La signorina Theodora Luke, che insegnava nella sua scuola, era una donna di trentott’anni, pallida e dritta come un fuso, dal volto aperto e risoluto, con dei ricci morbidi, due occhi grigi colmi d’interesse e stima e un’improbabile divisa da studentessa, in stile vittoriano, che tradiva una tempra insospettabile.
«Ve lo consento eccome, signora Napier», disse con voce viva e sincera e una viva e sincera risata. «Mi spianerà il cammino verso la vecchiaia».
«Non vedo grandi svantaggi nella maturità», disse Josephine, come se parlasse solo per esperienza personale. E quasi a rimarcare la loro abissale distanza anagrafica, aggiunse: «Avete fatto buon viaggio, cara?».
«Sì, ottimo, vi ringrazio. Il treno era piuttosto affollato. Ma non vedo ragione di obiettare alla presenza dei miei simili». La signorina Luke guardò Josephine dritta negli occhi, mentre esponeva la sua opinione. «Succede così raramente di incontrare della gente sgradevole, o di scorgere un viso ripugnante. Avete mai incontrato una persona ripugnante, signora Napier? Io no, non mi sembra».
«No, direi che tutti i volti che ho incontrato avevano una loro dignità, e un che di affascinante. Ma è anche vero che ho trascorso la mia vita tra persone intelligenti e educate. Non escluderei che certe facce possano mostrare i segni di una storia… come dire… diversa». E aggiunse con un sorrisetto colpevole, chinandosi verso la collega: «Spero che non ve ne fossero, nel vostro scompartimento».
La signorina Luke si lasciò scappare una risata.
«Be’, signora Napier, solitamente, quando incontro delle persone del genere, non provo altro che rispetto per le loro sventure. Pago il doveroso tributo delle classi più evolute – cui mi pregio di appartenere – a quanti vivono nei bassifondi della società. Come potrei fare altrimenti?».
«Avete senz’altro ragione. Credo abbiate riflettuto più di me sull’argomento: vi sono vari modi di rendersi utili, e tutti ugualmente preziosi. Può darsi che fossi troppo presa dai risvolti pratici della questione, per rendermene conto. Ora, se posso rubarvi un poco d’attenzione in merito a tutt’altra faccenda, che non attiene al vostro incarico, devo informarvi che la vostra stanza è cambiata». Josephine prese dei foglietti di carta. «Sì, è sul lato sinistro del secondo corridoio, dunque esposta a sud. Ricordate che il dottore vi ha raccomandato di prendere il sole? Spero che il cambiamento non vi dispiaccia…». Alzò lo sguardo con la matita sulle labbra, tutta presa dalla sua agenda.
«Dispiacermi? Ma che domande, signora Napier! Spero solo di non avervi dato troppi problemi. Non so come ringraziarvi».
«Ringraziarmi?», disse Josephine, con tono vagamente perplesso e ancora preoccupata. «Ho sistemato la signorina Rosetti nella stanza accanto. Mi piace sapervi vicine, visto che siete tanto amiche. Potrebbe rivelarsi molto utile, in caso di un malore improvviso. Siete così care, voi tutte. Alleviate i miei compiti di generale».
«Alleviarli mi pare impossibile», disse la signorina Luke.
«Diciamo allora che li allietate. E tanto mi basta. Non voglio sconti per il mio lavoro. E spero che anche voi siate felice di tornare al vostro».
«Be’, sì», disse la signorina Luke. «Direi più sì che no».
«Quindi siete combattuta», disse Josephine, scrutandola con tenerezza. «Me ne rallegro. Questo vuol dire molto, sia per voi che per gli altri. E ora avrete voglia di un tè. O almeno, sono io che lo desidero per voi. Per gli scompartimenti affollati ci vuole un buon antidoto. Quindi andate e fate il vostro dovere, nei vostri riguardi e nei miei».
Josephine si alzò rapidamente mentre la collega si alzava, poi tornò a sedersi e prese la penna. Ma un minuto dopo le toccò rialzarsi, per accogliere la nuova venuta. Era una donna dai capelli grigi, con l’aria da straniera, più alta, più fragile e più anziana della signorina Luke, dai lineamenti finemente cesellati, con degli occhi trasognati e chiari, percorsi da uno strano cinismo, e movenze spudoratamente languide. Josephine la salutò con qualche incertezza, perché non sapeva mai come inquadrarla.
«Be’, siete arrivate quasi insieme, con la signorina Luke. Mi ricordavo che avevate orari simili. Spero che il vostro treno non fosse affollato come il suo».
«Purtroppo sì. Ho viaggiato stretta in una fila di persone, e con un’altra fila davanti», disse la donna con voce stanca e impastata, suggerendo con un gesto delle spalle quanto la posizione fosse stata scomoda.
«Be’, immagino che non dovremmo obiettare alla presenza dei nostri simili», disse Josephine, in linea con la signorina Luke.
«Avevo tutte le ragioni di obiettare alla presenza di quelle creature. E non vedo perché considerarle simili: non ho notato alcuna somiglianza».
«Ammetto che non sempre salta agli occhi», disse Josephine, con un gran sorriso. «Ma non diciamolo alla signorina Luke. Non io, almeno. Magari voi che siete più intima, potreste azzardarvi a farlo».
Maria Rosetti era nata da genitori italiani e cresciuta in Francia: e queste qualità, insieme ad altre che Josephine le riconosceva, le erano valse la cattedra di lingue moderne.
«Confido che le vostre vacanze siano state più gradevoli del viaggio di ritorno».
«Non ho fatto vacanze: le ho trascorse lavorando, in un luogo di villeggiatura. Bisogna che guadagni quel che posso, finché posso. Ma sono stata bene e in salute».
«Be’, spero che passerete un buon semestre. Non dobbiamo oberarvi di lavoro. Almeno, sono io che non devo: perché non credo, in questo, di potermi fidare di voi». Josephine esaminò un orario affisso sulla scrivania. «Se cancellassimo le vostre ore di conversazione nel pomeriggio? Sì, direi che si può fare». Le cassò con una penna. «Così avrete i pomeriggi tutti per voi».
«Il lavoro che ho svolto in vacanza non ha nulla a che fare con quello del semestre, signora Napier».
«Davvero?», disse Josephine, con voce melodiosa. «Ma io devo tenerne conto, nel valutare la vostra idoneità. Sono lieta che mi abbiate informata: anzi, direi che è stata una fortuna».
«Sono perfettamente idonea al mio lavoro, signora Napier».
«Non c’è bisogno che me lo diciate», rispose Josephine con tono grave. «È facile, per voi, svolgere un lavoro che non impegna al massimo le vostre capacità. Spesso rimpiango di non potervi dare altri incarichi, più degni di voi. Ma stando così le cose, non vedo perché i vostri impegni quotidiani debbano rappresentare un fardello».
«Io faccio quel che mi si chiede», disse la signorina Rosetti, senza scomporsi. «Se non mi dedico al lavoro con tutta me stessa, è solo perché non serve. Anzi, aspettavo l’occasione per dirvi che, se aveste bisogno di un socio, sarei ben lieta di propormi. Sono in condizioni di far fronte a tutte le esigenze pratiche; e anche, perché non dirlo, di pagare».
«Spero di non sembrarvi presuntuosa», disse Josephine dopo una pausa, chinandosi verso di lei con espressione sincera. «Credetemi, sono semplicemente avvezza a lavorare sodo e a non lasciare che mi si tolgano gli impegni di mano. Per il momento vi ringrazio di quest’attestazione di fiducia, tanto più apprezzabile perché mi giunge prima del tempo. Lo terrò a mente per il futuro; e anche per il presente, come incoraggiamento personale. Ma dobbiamo evitare che i nostri comuni compiti gravino su qualità troppo preziose per loro. Credo che, alleggerendoli un tantino, potremo scongiurare il pericolo».
«Siete troppo gentile, signora Napier».
«No. Perché gentile?», disse Josephine quasi tra sé, mentre prendeva appunti. «Voi per me avete sempre fatto tutto il possibile».
«E continuerò a farlo senz’altro», disse la signorina Rosetti, posando di sfuggita gli occhi sul foglio bianco davanti a Josephine, prima di uscire dalla stanza.
La seguì a stretto giro una donna tracagnotta, dall’aspetto vagamente comico, che si fece incontro a Josephine con passo lento, quasi compiaciuta della sua andatura. Malgrado avesse cinquant’anni, aveva il viso tondo e riposato, con lineamenti poco marcati, senza rughe, capelli grigi raccolti alla buona e due occhi lucidi e sporgenti, vaghi, che spaziavano qua e là per poi ritrarsi di colpo, come se sapessero il fatto loro.
«È con particolare emozione che oggi torno ad accogliervi», disse Josephine Napier, alzandosi dalla scrivania e attraversando lo studio per ricevere la donna appena entrata. «Ho ben presente che questo è il vostro ottavo anno di servizio presso la mia scuola. Credetemi, non dimentico quanto sia in debito con voi. Posso permettermi di dire che in questi sette anni il vostro contributo è stato impareggiabile? Mi consentite di dire almeno questo?».
Josephine Napier, direttrice di un grande istituto femminile in una prospera cittadina inglese, era una donna di cinquantaquattro anni, alta e austera, con qualche ciocca grigia tra i capelli ramati, grandi occhi nocciola, un viso regale, dai tratti marcati eppure semplici, deliberatamente schietta e modesta, mani sorprendentemente ingioiellate, vestita e pettinata in modo da esibire i suoi anni, anziché nasconderli.
La signorina Theodora Luke, che insegnava nella sua scuola, era una donna di trentott’anni, pallida e dritta come un fuso, dal volto aperto e risoluto, con dei ricci morbidi, due occhi grigi colmi d’interesse e stima e un’improbabile divisa da studentessa, in stile vittoriano, che tradiva una tempra insospettabile.
«Ve lo consento eccome, signora Napier», disse con voce viva e sincera e una viva e sincera risata. «Mi spianerà il cammino verso la vecchiaia».
«Non vedo grandi svantaggi nella maturità», disse Josephine, come se parlasse solo per esperienza personale. E quasi a rimarcare la loro abissale distanza anagrafica, aggiunse: «Avete fatto buon viaggio, cara?».
«Sì, ottimo, vi ringrazio. Il treno era piuttosto affollato. Ma non vedo ragione di obiettare alla presenza dei miei simili». La signorina Luke guardò Josephine dritta negli occhi, mentre esponeva la sua opinione. «Succede così raramente di incontrare della gente sgradevole, o di scorgere un viso ripugnante. Avete mai incontrato una persona ripugnante, signora Napier? Io no, non mi sembra».
«No, direi che tutti i volti che ho incontrato avevano una loro dignità, e un che di affascinante. Ma è anche vero che ho trascorso la mia vita tra persone intelligenti e educate. Non escluderei che certe facce possano mostrare i segni di una storia… come dire… diversa». E aggiunse con un sorrisetto colpevole, chinandosi verso la collega: «Spero che non ve ne fossero, nel vostro scompartimento».
La signorina Luke si lasciò scappare una risata.
«Be’, signora Napier, solitamente, quando incontro delle persone del genere, non provo altro che rispetto per le loro sventure. Pago il doveroso tributo delle classi più evolute – cui mi pregio di appartenere – a quanti vivono nei bassifondi della società. Come potrei fare altrimenti?».
«Avete senz’altro ragione. Credo abbiate riflettuto più di me sull’argomento: vi sono vari modi di rendersi utili, e tutti ugualmente preziosi. Può darsi che fossi troppo presa dai risvolti pratici della questione, per rendermene conto. Ora, se posso rubarvi un poco d’attenzione in merito a tutt’altra faccenda, che non attiene al vostro incarico, devo informarvi che la vostra stanza è cambiata». Josephine prese dei foglietti di carta. «Sì, è sul lato sinistro del secondo corridoio, dunque esposta a sud. Ricordate che il dottore vi ha raccomandato di prendere il sole? Spero che il cambiamento non vi dispiaccia…». Alzò lo sguardo con la matita sulle labbra, tutta presa dalla sua agenda.
«Dispiacermi? Ma che domande, signora Napier! Spero solo di non avervi dato troppi problemi. Non so come ringraziarvi».
«Ringraziarmi?», disse Josephine, con tono vagamente perplesso e ancora preoccupata. «Ho sistemato la signorina Rosetti nella stanza accanto. Mi piace sapervi vicine, visto che siete tanto amiche. Potrebbe rivelarsi molto utile, in caso di un malore improvviso. Siete così care, voi tutte. Alleviate i miei compiti di generale».
«Alleviarli mi pare impossibile», disse la signorina Luke.
«Diciamo allora che li allietate. E tanto mi basta. Non voglio sconti per il mio lavoro. E spero che anche voi siate felice di tornare al vostro».
«Be’, sì», disse la signorina Luke. «Direi più sì che no».
«Quindi siete combattuta», disse Josephine, scrutandola con tenerezza. «Me ne rallegro. Questo vuol dire molto, sia per voi che per gli altri. E ora avrete voglia di un tè. O almeno, sono io che lo desidero per voi. Per gli scompartimenti affollati ci vuole un buon antidoto. Quindi andate e fate il vostro dovere, nei vostri riguardi e nei miei».
Josephine si alzò rapidamente mentre la collega si alzava, poi tornò a sedersi e prese la penna. Ma un minuto dopo le toccò rialzarsi, per accogliere la nuova venuta. Era una donna dai capelli grigi, con l’aria da straniera, più alta, più fragile e più anziana della signorina Luke, dai lineamenti finemente cesellati, con degli occhi trasognati e chiari, percorsi da uno strano cinismo, e movenze spudoratamente languide. Josephine la salutò con qualche incertezza, perché non sapeva mai come inquadrarla.
«Be’, siete arrivate quasi insieme, con la signorina Luke. Mi ricordavo che avevate orari simili. Spero che il vostro treno non fosse affollato come il suo».
«Purtroppo sì. Ho viaggiato stretta in una fila di persone, e con un’altra fila davanti», disse la donna con voce stanca e impastata, suggerendo con un gesto delle spalle quanto la posizione fosse stata scomoda.
«Be’, immagino che non dovremmo obiettare alla presenza dei nostri simili», disse Josephine, in linea con la signorina Luke.
«Avevo tutte le ragioni di obiettare alla presenza di quelle creature. E non vedo perché considerarle simili: non ho notato alcuna somiglianza».
«Ammetto che non sempre salta agli occhi», disse Josephine, con un gran sorriso. «Ma non diciamolo alla signorina Luke. Non io, almeno. Magari voi che siete più intima, potreste azzardarvi a farlo».
Maria Rosetti era nata da genitori italiani e cresciuta in Francia: e queste qualità, insieme ad altre che Josephine le riconosceva, le erano valse la cattedra di lingue moderne.
«Confido che le vostre vacanze siano state più gradevoli del viaggio di ritorno».
«Non ho fatto vacanze: le ho trascorse lavorando, in un luogo di villeggiatura. Bisogna che guadagni quel che posso, finché posso. Ma sono stata bene e in salute».
«Be’, spero che passerete un buon semestre. Non dobbiamo oberarvi di lavoro. Almeno, sono io che non devo: perché non credo, in questo, di potermi fidare di voi». Josephine esaminò un orario affisso sulla scrivania. «Se cancellassimo le vostre ore di conversazione nel pomeriggio? Sì, direi che si può fare». Le cassò con una penna. «Così avrete i pomeriggi tutti per voi».
«Il lavoro che ho svolto in vacanza non ha nulla a che fare con quello del semestre, signora Napier».
«Davvero?», disse Josephine, con voce melodiosa. «Ma io devo tenerne conto, nel valutare la vostra idoneità. Sono lieta che mi abbiate informata: anzi, direi che è stata una fortuna».
«Sono perfettamente idonea al mio lavoro, signora Napier».
«Non c’è bisogno che me lo diciate», rispose Josephine con tono grave. «È facile, per voi, svolgere un lavoro che non impegna al massimo le vostre capacità. Spesso rimpiango di non potervi dare altri incarichi, più degni di voi. Ma stando così le cose, non vedo perché i vostri impegni quotidiani debbano rappresentare un fardello».
«Io faccio quel che mi si chiede», disse la signorina Rosetti, senza scomporsi. «Se non mi dedico al lavoro con tutta me stessa, è solo perché non serve. Anzi, aspettavo l’occasione per dirvi che, se aveste bisogno di un socio, sarei ben lieta di propormi. Sono in condizioni di far fronte a tutte le esigenze pratiche; e anche, perché non dirlo, di pagare».
«Spero di non sembrarvi presuntuosa», disse Josephine dopo una pausa, chinandosi verso di lei con espressione sincera. «Credetemi, sono semplicemente avvezza a lavorare sodo e a non lasciare che mi si tolgano gli impegni di mano. Per il momento vi ringrazio di quest’attestazione di fiducia, tanto più apprezzabile perché mi giunge prima del tempo. Lo terrò a mente per il futuro; e anche per il presente, come incoraggiamento personale. Ma dobbiamo evitare che i nostri comuni compiti gravino su qualità troppo preziose per loro. Credo che, alleggerendoli un tantino, potremo scongiurare il pericolo».
«Siete troppo gentile, signora Napier».
«No. Perché gentile?», disse Josephine quasi tra sé, mentre prendeva appunti. «Voi per me avete sempre fatto tutto il possibile».
«E continuerò a farlo senz’altro», disse la signorina Rosetti, posando di sfuggita gli occhi sul foglio bianco davanti a Josephine, prima di uscire dalla stanza.
La seguì a stretto giro una donna tracagnotta, dall’aspetto vagamente comico, che si fece incontro a Josephine con passo lento, quasi compiaciuta della sua andatura. Malgrado avesse cinquant’anni, aveva il viso tondo e riposato, con lineamenti poco marcati, senza rughe, capelli grigi raccolti alla buona e due occhi lucidi e sporgenti, vaghi, che spaziavano qua e là per poi ritrarsi di colpo, come se sapessero il fatto loro.
«Buongiorno, signora Napier. Come state? Sono arrivata oggi, perché il semestre inizia domani».
Dopo aver porto i suoi saluti, la signorina Emmeline Munday rimase quieta e in silenzio.
«Siete davvero premurosa. Speravo di vedervi oggi. La signorina Luke e la signorina Rosetti sono già arrivate e vi aspettano in sala professori. A voi piacciono le vacanze, sì? Cosa preferite, le vacanze o il semestre?».
«Le vacanze», disse la signorina Munday, guardando Josephine dritta negli occhi.
«Forse avrei dovuto chiedervi: quale delle due vi reca più soddisfazione?».
Josephine restò in silenzio, in attesa della conseguente rettifica.
«Le vacanze», ripeté la signorina Munday, contraendo il labbro.
«Be’, mi sembra sano», disse Josephine, tetragona a ogni delusione. «Avete dei suggerimenti da darmi, prima di raggiungere le vostre amiche?».
«No», disse la signorina Munday, battendo le palpebre.
«Nessuna indicazione in merito a orari, classi, numero di allievi, o altro? Voi siete la decana, tra le mie insegnanti; siete qui da prima di ogni altra; e io non ho nulla da chiedervi, se non di pronunciarvi in merito a qualsiasi evenienza. Sapete che non chiedo altro, per voi».
«Sì», disse la signorina Munday. E dopo aver dato conferma, girò sui tacchi e uscì dalla stanza.
La quarta ad arrivare fu l’unica maritata dell’intero corpo insegnanti, una donnina di quarantacinque anni dall’aria ansiosa, con un visetto bruno dai lineamenti irregolari, manine brune e inquiete, abiti vistosamente sciatti e l’aria vigile, curiosa e intraprendente di una bestiola selvatica. Certi incolpavano il marito di averla lasciata priva di risorse, ma si trattava di un’accusa ingiusta: perché il fatto d’essere rimasta vedova di uno scrittore le era valso la cattedra di Letteratura inglese. Il grosso del programma, tuttavia, era affidato alla signorina Munday, in virtù della sua laurea: e questo stabiliva i gradi della scala gerarchica. La signora Chattaway parlava raramente dei suoi trascorsi coniugali, e le sue colleghe, pur deprecando il matrimonio in genere, attribuivano la reticenza alla perdita; mentre la verità, per altro facilmente intuibile, era che non serbava un buon ricordo del marito.
«Oh, sono sicura di essere in ritardo; me ne vergogno tanto. Ma il viaggio è stato spaventoso. Il treno era in ritardo, e mentre l’aspettavo ha proseguito senza di me. Non l’ho neppure visto; è stata colpa mia. Così ho dovuto attendere il successivo».
«Fortuna che almeno quello non vi ha lasciata a piedi», disse Josephine, sorridendo e tenendole la mano. «Non è di certo il compito dei treni, quello di andarsene mentre li stiamo aspettando. Perché più di star lì ad attenderli, non possiamo fare. Sarete molto stanca, immagino».
«Più che stanca mi sento scossa, e in collera con me stessa. E poi mi sento così in disordine… Non oso immaginare che aspetto avrò». La signora Chattaway rimediò alla mancanza dandosi un’occhiata allo specchio, ma poi soprassedette, approfittando dell’agitazione. «Mi spiace d’essere arrivata tardi proprio il primo giorno; so che ci tenete tanto a offrirci il tè»